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Il ritorno dell’Agente Zero
Jack Mars


Uno spy thriller della serie Agente Zero #1
Uno dei migliori thriller di quest’anno. Books and Movie Reviews (re A ogni costo) In questo molto atteso esordio di un’epica serie spy thriller dello scrittore di bestseller #1 Jack Mars, i lettori sono trascinati in un’avventura al cardiopalma per tutta l’Europa, mentre il presunto agente della CIA Kent Steele, perseguitato dai terroristi e dalla sua stessa identità, deve risolvere il mistero di chi lo vuole morto, chi è, quale sia l’obiettivo dei terroristi, e chi è la bellissima donna che continua a vedere nella propria mente. Kent Steele, 38 anni, un brillante professore di storia europea alla Columbia University, vive una vita tranquilla in un sobborgo di New York con le sue due figlie adolescenti. Tutta cambia quando riceve una visita a tarda notte, viene rapito da tre terroristi, e si ritrova dall’altra parte dell’oceano, sotto interrogatorio, in uno scantinato di Parigi. Sono convinti che Kent sia la spia più letale che la CIA abbia mai conosciuto. Lui è convinto che abbiano preso l’uomo sbagliato. È così?Circondato da una cospirazione, avversari furbi quanto lui, e un assassino alle costole, questo perverso gioco del gatto col topo condurrà Kent su una strada pericolosa, che potrebbe riportarlo a Langley e a una shoccante rivelazione sulla sua stessa identità. IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO è un thriller di spionaggio che non riuscirete a posare fino alla fine. Il thriller al suo meglio. Midwest Book Review (re A ogni costo) Inoltre è disponibile la serie thriller besteller di Jack Mars LUKE STONE (7 libri), che inizia con A ogni costo (Libro #1), un download gratuito con più di 800 recensioni a cinque stelle!





Jack Mars

IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO




Jack Mars

Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.



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LIBRI DI JACK MARS




SERIE THRILLER DI LUKE STONE


A OGNI COSTO (Libro #1)


IL GIURAMENTO (Libro #2)




SERIE SPY THRILLER KENT STEELE


AGENTE ZERO (Libro #1)


OBIETTIVO ZERO (Libro #2)


“La vita dei morti è riposta nella memoria dei vivi.”

    —Marcus Tullius Cicero






CAPITOLO UNO


La prima lezione della giornata era sempre la piГ№ difficile. Gli studenti entrarono barcollando nell'aula magna della Columbia University come irrequieti zombie dallo sguardo spento, ottenebrati da nottate passate sui libri, postumi di sbronze, o una combinazione delle due. Portavano pantaloni di tuta e t-shirt del giorno prima, e stringevano tazze da asporto di cappuccini alla soia o caffГЁ artigianali, o qualunque altra cosa piacesse bere ai ragazzi in quel periodo.

Il lavoro del professor Reid Lawson era insegnare, ma capiva che la mattina serviva qualcosa di intenso per svegliare gli studenti, che stimolasse la mente, in aggiunta alla caffeina. Lawson diede ai ragazzi un momento per trovare i propri posti e per mettersi comodi, mentre si toglieva il cappotto sportivo di tweed e lo drappeggiava sullo schienale della sedia.

"Buon giorno," disse ad alta voce. L'annuncio fece sobbalzare diversi studenti, che alzarono di scatto lo sguardo come se si fossero resi conto solo allora di essere arrivati in classe. "Oggi parleremo di pirati."

Quella frase gli fece guadagnare l'attenzione dell'aula. Diverse paia d'occhi si focalizzano su di lui, battendo le palpebre nel mezzo della nebbia della privazione del sonno e cercando di capire se avesse davvero detto "pirati" o meno.

"Quelli dei Caraibi? " scherzГІ uno studente nella fila davanti.

"Del Mediterraneo, in realtГ ," lo corresse Lawson. CominciГІ ad aggirarsi lentamente con le mani giunte dietro la schiena. "Quanti di voi hanno seguito il corso del professor Truitt sugli antichi imperi?" Circa un terzo della classe sollevГІ la mano. "Bene. Allora sapete che l'Impero Ottomano ГЁ stato una potenza mondiale per, oh, circa seicento anni. CiГІ che forse non sapete ГЁ che i corsari ottomani, o come sono noti, i pirati barbareschi, imperversarono per tutto il mare nella maggior parte di questi periodo, dalle coste del Portogallo, attraverso lo Stretto di Gibilterra, fino al Mediterraneo. Che cosa credete che volessero? Qualcuno? So che siete vivi, lГ  in fondo."

"Soldi?" chiese una ragazza in terza fila.

"Tesori, " disse lo studente davanti.

"Rum!" ArrivГІ un grido da uno studente in fondo all'aula, provocando una risata nel resto della classe. Anche Reid sorrise. Dopo tutto la folla si era svegliata.

"Tutte buone idee," disse. "E la risposta è 'tutte quante'. Vedete, i pirati barbareschi prendevano principalmente di mira i vascelli mercantili europei, e gli rubavano tutto, e intendo proprio qualsiasi cosa. Scarpe, cinture, denaro, cappelli, beni vari, la nave stessa… E la sua ciurma. Si ritiene che nei due secoli dal 1580 al 1780, i pirati barbareschi abbiano catturato e schiavizzato più di due milioni di persone. Portavano i loro bottini nei loro regni Nord africani. Ed è andata avanti così per secoli. E cosa pensate che abbiano fatto le nazioni europee in risposta?"

"Hanno dichiarato guerra!" GridГІ lo studente in fondo.

Una ragazza impacciata con gli occhiali dalla montatura di corno alzò leggermente la mano e chiese: “Stipularono un trattato di pace?”

“In un certo senso,” rispose Lawson. “Le potenze europee accettarono di pagare un tributo alle nazioni barbaresche, sotto forma di una grande quantità di denaro e beni. Sto parlando del Portogallo, della Spagna, della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Svezia e dei Paesi Bassi… tutte pagavano i pirati perché restassero alla larga delle loro navi. I ricchi diventarono più ricchi, e i pirati si tirarono indietro, in larga parte. Ma poi, nel tardo diciottesimo e diciannovesimo secolo, successe qualcosa. Si verificò un evento che sarebbe stato il catalizzatore della fine dei pirati barbareschi. Qualcuno vuole azzardare un’ipotesi?”

Nessuno aprì bocca. Sulla sua destra, Lawson notò un ragazzo che stava cercando sul cellulare.

“Signor Lowell,” disse. Il ragazzo scattò sull’attenti. “Qualche idea?”

“Uhm… è per via dell’America?”

Lawson sorrise. “Me la sta chiedendo o me lo sta dicendo? Dia con sicurezza le sue risposte, e il resto di noi almeno crederà che sa di cosa sta parlando.”

“È per via dell’America,” disse il ragazzo di nuovo, con più enfasi.

“Esatto! È colpa dell’America. Ma come sapete, all'epoca eravamo una nazione appena nata. L’America era più giovane della maggior parte di voi. Dovevamo creare rotte commerciali con l’Europa per promuovere la nostra economia, ma i pirati barbareschi iniziarono a prendere di mira le nostre navi. Quando ci lamentammo con loro, ci richiesero un tributo. Quasi non avevamo una tesoreria, men che meno dei tesori all’interno. Il nostro salvadanaio era vuoto. Che scelta avevamo? Che cosa potevamo fare?”

“Dichiarare guerra!” si alzò la voce familiare dal fondo della sala.

“Precisamente! Non avevamo altra scelta se non di dichiarare guerra. Ora, la Svezia stava già combattendo contro i pirati da un anno e insieme, tra il 1801 e il 1805, prendemmo il porto di Tripoli e catturammo la città di Derne, mettendo fine al conflitto.” Lawson si appoggiò al bordo della cattedra e strinse le mani davanti a sé. “Ovviamente, così sorvoliamo su molti dettagli, ma questa è una lezione di storia europea, non americana. Se ne avete l’occasione, dovreste leggere del tenente Stephen Decatur e la USS Philadelphia. Ma sto divagando. Perché stiamo parlando di pirati?”

“Perché i pirati sono fighi?” rispose Lowell, che ormai aveva messo via il cellulare.

Lawson ridacchiò. “Non posso darti torto. Ma no, non è questo il motivo. Stiamo parlando di pirati perché la guerra di Tripoli rappresenta qualcosa visto di rado negli annali della storia.” Si raddrizzò, guardando tutta l’aula e incontrando gli sguardi di numerosi studenti. Almeno in quel momento Lawson riusciva a vedere la luce nei loro occhi, segno che la maggior parte quella mattina era viva, se non proprio attenta. “Per centinaia di secoli, nessuno dei paesi europei si era opposto alle nazioni barbaresche. Era più semplice pagarle. Servì l’America, che allora era una barzelletta per la maggior parte del mondo sviluppato, a portare un cambiamento. Fu necessario un atto di disperazione di una nazione assurdamente e disperatamente disarmata per spostare le dinamiche di potere della rotta commerciale più importante del mondo. Ed è in questo che consiste la lezione.”

“Non si scherza con l’America,” provò a dire qualcuno.

Lawson sorrise. “Beh, sì.” Alzò un dito per aria sottolineare il concetto. “Ma soprattutto, che la disperazione e una completa mancanza di scelte possibili possono, e hanno portato nel corso della storia, ad alcuni dei maggiori trionfi che il mondo abbia visto. La storia ci ha insegnato, ancora e ancora, che non esiste un regime troppo grande da rovesciare, e nessun paese troppo piccolo o debole per poter fare la differenza.” Fece l’occhiolino. “Pensateci la prossima volta che vi sentite poco più di una briciola in questo mondo.”

Alla fine della lezione, c’era una netta differenza tra gli studenti stanchi e ciondoloni che erano entrati e il gruppo ridente e ciarliero che uscì dall’aula. Una ragazza dai capelli rosa si fermò alla sua cattedra mentre usciva e commentò: “Bel discorso, professore. Quale era il nome del tenente americano di cui ha parlato prima?”

“Oh, era Stephen Decatur.”

“Grazie.” Se lo annotò e corse fuori dall'aula.

“Professore?”

Lawson alzò lo sguardo. Era lo studente di prima fila. “Sì, signor Garner? Che cosa posso fare per lei?”

“Volevo chiederle un favore, se fosse possibile. Sto facendo domanda per un tirocinio al Museo di Storia Naturale, e uh, mi sarebbe utile una sua lettera di raccomandazione.”

“Certo, nessun problema. Ma lei non si sta laureando in antropologia?”

“Sì, ma uh, ho pensato che una lettera scritta da lei avrebbe avuto più peso, capisce? E, uhm…” Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle sue scarpe. “Questo è tipo, il mio corso preferito.”

“Il suo corso preferito finora.” Lawson sorrise. “Ne sarei felice. Gliela porterò domani, ah, in realtà stanotte ho un impegno importante a cui non posso proprio mancare. Che ne dice di venerdì?”

“Nessuna fretta. Venerdì andrà benissimo. Grazie, professore. Ci vediamo!” Garner uscì dall’aula, lasciando Lawson da solo.

Il professore si guardò intorno nella sala vuota. Quello era il momento che preferiva della giornata, la pausa tra una lezione e l’altra, in cui la soddisfazione per quella appena finita si mescolava all’anticipazione per quella che stava per iniziare.

Il suo telefono squillГІ. Era un messaggio da Maya. A casa per le 5:30?

Sì, rispose lui. Non me lo perderei mai. L’’impegno importante’ di quella sera era la sera dei giochi a casa Lawson. Adorava trascorrere quei bei momenti insieme alle sue due ragazze.

Bene, scrisse a sua volta la figlia. Ho delle novitГ .

Che novitГ ?

Più tardi, fu la sua risposta. Lui si accigliò davanti a quel messaggio vago. All’improvviso la giornata gli sembrò molto lunga.


*

Non appena la giornata di lavoro arrivò alla fine, Lawson riempì la tracolla, prese il pesante cappotto invernale e si diresse verso il parcheggio. Febbraio a New York era sempre gelido, e ultimamente era stato persino peggio. Persino il più leggero refolo di vento tagliava la pelle dal freddo.

Avviò l’auto e lasciò che si riscaldasse per qualche minuto, portando una mano alla bocca e soffiando il fiato caldo sulle dita gelate. Era il suo secondo inverno a New York e sembrava che non riuscisse ad abituarsi a quel clima. In Virginia aveva pensato che cinque gradi a febbraio fossero glaciali. Almeno non sta nevicando, pensò. Meglio guardare il lato positivo.

Il viaggio dal campus della Columbia University fino a casa era di sole sette miglia, ma a quell’ora del giorno c’era un gran traffico e tutti i pendolari erano generalmente irritati. Reid lo passava ascoltando degli audiolibri, come sua figlia maggiore gli aveva recentemente consigliato. Attualmente era a metà de Il nome della rosa di Umberto Eco, anche se quel giorno non riuscì ad ascoltare neanche una parola. Stava pensando al messaggio criptico di Maya.

Casa Lawson era un bungalow a due piani di mattoni marroni che si ergeva a Riverdale, nella zona a nord del Bronx. Lui amava quel quartiere bucolico e suburbano, la sua prossimitГ  alla cittГ  e all'universitГ , le stradine tortuose che a sud si trasformavano in ampi viali. Anche le ragazze lo amavano, e se Maya fosse stata accettata alla Columbia, o persino alla sua seconda scelta di New York, non avrebbe dovuto lasciarlo.

Reid capì che c’era qualcosa di diverso non appena entrò in casa. Lo sentiva nell’aria. Udì delle voci smorzate che venivano dalla cucina in fondo al corridoio. Appoggiò la tracolla e si sfilò silenziosamente la giacca sportiva prima di avanzare in punta di piedi nell’ingresso.

“Che cosa sta succedendo qui?” chiese a mo’ di saluto.

“Ciao, papà!” Sara, la sua figlia quattordicenne saltellava sui talloni mentre guardava Maya, la sorella maggiore, che eseguiva un losco rituale sopra una pirofila di Pyrex. “Stiamo preparando la cena!”

“Io sto preparando la cena,” mormorò Maya, senza alzare lo sguardo. “Lei assiste solamente.”

Reid batté le palpebre per la sorpresa. “Okay. Ho delle domande.” Sbirciò sopra la spalla di Maya che stava applicando una gelatina viola su un fila ordinata di costolette di maiale. “A partire da… uh?”

Maya continuò a tenere lo sguardo basso. “Non guardami così,” disse. “Sono stata costretta a seguire il corso di economia domestica, quindi sarà meglio che ne faccia buon uso.” Alla fine spostò gli occhi su di lui e gli lanciò un sorriso teso. “E non farci l’abitudine.”

Reid alzò le mani con aria conciliatoria. “Assolutamente.”

Maya aveva sedici anni ed era pericolosamente intelligente. Era ovvio che avesse ereditato il cervello da sua madre; quello sarebbe stato il suo ultimo anno del liceo dato che aveva saltato la terza media. Aveva i capelli scuri di Reid, il suo sorriso pensieroso e il suo talento per il dramma. Sara, d'altra parte, aveva preso tutto da Kate. Man mano che diventava adolescente, a Reid capitava di intristirsi guardandola, ma non lo faceva mai vedere. Aveva anche assunto il carattere focoso di Kate. La maggior parte del tempo Sara era una ragazza dolce, ma di tanto in tanto esplodeva e le conseguenze erano terribili.

Reid guardò sbalordito mentre le ragazze apparecchiavano e servivano la cena. “Sembra tutto buonissimo, Maya,” commentò.

“Oh, aspetta. Ancora una cosa.” La ragazza prese qualcosa dal frigo, una bottiglia marrone. “La tua preferita è la belga, vero?”

Reid strinse gli occhi. “Come hai fatto a…?”

“Non preoccuparti, l’ho fatta comprare a zia Linda.” Aprì il tappo e versò la birra in un bicchiere. “Ecco. Ora possiamo mangiare.”

Reid era estremamente grato che Linda, la sorella di Kate, abitasse a pochi minuti di distanza. Ottenere la cattedra da professore associato crescendo due adolescenti sarebbe stato impossibile senza di lei. Era uno dei motivi principali per cui si era trasferito da New York, perché le ragazze potessero avere vicino un’influenza femminile positiva. (Anche se doveva ammettere che non era proprio entusiasta che Linda avesse comprato la birra alla figlia adolescente, a prescindere da per chi fosse.)

“Maya, è incredibile,” esclamò dopo il primo boccone.

“Grazie. È una gelatina al chipotle.”

Si pulì la bocca, appoggiò il tovagliolo e domandò: “Va bene, è tutto molto sospetto. Che cosa hai fatto?”

“Cosa? Niente!” insistette lei.

“Che cosa hai rotto?”

“Io non ho…”

“Ti hanno sospesa?”

“Papà, andiamo…”

Reid afferrò drammaticamente il tavolo tra le mani. “Oh, Dio, non dirmi che sei incinta. Non ho nemmeno un fucile.”

Sara ridacchiГІ.

“La vuoi smettere?” sbuffò Maya. “Posso essere gentile, sai.” Mangiarono in silenzio per un minuto circa prima che lei aggiungesse con disinvoltura: “Ma visto che stiamo parlando…”

“Oh, accidenti. Ecco che arriva.”

Lei si schiarì la gola e disse: “Ho un appuntamento, ecco. Per San Valentino.”

Reid quasi si strangolГІ sulla sua costoletta.

Sara sorrise. “Te l’avevo detto che non sarebbe stato contento.”

Lui si riprese e sollevò una mano. “Aspetta, aspetta. Non è che non sono contento. È solo che non pensavo… Non sapevo che tu, uh… Stai uscendo con qualcuno?”

“No,” rispose in fretta Maya. Poi scrollò le spalle e abbassò lo sguardo sul piatto. “Forse, ancora non lo so. Ma è un ragazzo carino, e vuole portarmi fuori a cena in città…”

“In città,” ripeté Reid.

“Sì, papà, in città. E mi serve un vestito. È un locale elegante. Non ho proprio niente da mettermi.”

C’erano state molto volte in cui Reid aveva disperatamente desiderato che Kate fosse lì, ma quello le batteva tutte. Aveva sempre saputo che le sue figlie avrebbero avuto dei ragazzi prima o poi, ma sperava che non sarebbe successo prima dei venticinque anni. Era in momenti come quello che faceva appello al suo acronimo genitoriale preferito, CCFK? Che Cosa Farebbe Kate? In quanto artista e spirito libero, probabilmente avrebbe gestito la situazione molto diversamente da lui, e Reid cercava di tenerlo sempre a mente.

Doveva avere un’espressione particolarmente turbata, perché Maya scoppiò in una risatina e appoggiò una mano sulla sua. “Tutto bene, papà? È solo un appuntamento. Non succederà niente, non è niente di grave.”

“Sì,” rispose lui lentamente. “Hai ragione. Certo che non è niente di grave. Possiamo chiedere a zia Linda se può accompagnarti al centro commerciale questo weekend e…”

“Voglio che mi accompagni tu.”

“Davvero?”

Lei si scrollò. “Voglio dire, non vorrei comprare qualcosa che a te non andasse bene.”

Un vestito, una cena in città, e un ragazzo sconosciuto… Non erano certo eventi con cui aveva mai pensato di doversi confrontare prima di allora.

“Va bene, allora,” disse. “Andremo sabato. Ma ho una condizione: posso scegliere io il gioco di stasera.”

“Mmh,” replicò Maya. “Sei un negoziatore molto abile. Fammi consultare con la mia socia.” La ragazza si voltò verso la sorella.

Sara annuì. “Va bene, basta che non sia Risiko.”

Reid sbuffò. “Non sai di che cosa stai parlando. Risiko è fantastico.”

Dopo cena, Sara mise a lavare i piatti mentre Maya preparava la cioccolata calda. Reid tirò fuori uno dei suoi giochi da tavolo preferiti, Ticket to Ride, un classico che aveva come obiettivo la costruzione di linee ferroviarie per tutta l’America. Mentre preparava le carte e i trenini di plastica, si trovò a chiedersi quando fosse successo, quando era cresciuta così in fretta Maya? Negli ultimi due anni, dopo la morte di Kate, lui aveva assunto il ruolo di entrambi i genitori (con l’aiuto apprezzatissimo della loro zia Linda). Entrambe avevano ancora bisogno di lui, o così sembrava, ma non mancava molto perché se ne andassero al college, iniziassero le loro carriere, e poi…

“Papà?” Sara entrò nel soggiorno e si sedette davanti a lui. Come se gli avesse letto il pensiero, disse: “Non dimenticarti che mercoledì sera ho una mostra d’arte a scuola. Ci sarai, vero?”

Reid sorrise. “Ma certo, tesoro. Non me la perderei mai.” Batté insieme le mani. “Ora! Chi è pronto a farsi distruggere… voglio dire, chi è pronto a una bella partita amichevole e per famiglie?”

“Fatti sotto, vecchio,” lo sfidò Maya dalla cucina.

“Vecchio?” esclamò indignato Reid. “Ho trentotto anni!”

“Appunto.” Rise mentre entrava in soggiorno. “Oh, il gioco dei treni.” Il suo sorriso si fece tirato. “Era il preferito della mamma, vero?”

“Oh… sì.” Reid si rabbuiò. “Lo era.”

“Io sono il blu!” dichiarò Sara, prendendo la pedina.

“Arancione,” scelse Maya. “Papà, che colore? Papà, ci sei?”

“Oh.” Reid si riscosse dai suoi pensieri. “Scusate. Uh, verde.”

Maya spinse i pezzi verso di lui. Reid si sforzГІ di sorridere, anche se dentro di sГ© era ancora turbato.


*

Dopo due partite, entrambe vinte da Maya, le ragazze andarono a letto e Reid si ritirò nel suo studio, un piccola stanza a piano terra, vicino all’ingresso.

Riverdale non era una zona economica, ma per lui era importante che le sue ragazze vivessero in un ambiente sicuro e felice. Avevano solo due camere da letto, quindi aveva trasformato il piccolo sgabuzzino a piano terra in un ufficio. I suoi libri e cimeli erano stipati su ogni centimetro della stanzina di pochi metri. Con la scrivania e la poltrona di pelle, il tappeto usurato svaniva quasi completamente alla vista.

Su quella poltrona si addormentava spesso, dopo aver fatto tardi sui libri, preparando lezioni e rileggendo biografie. Stava iniziando a fargli venire mal di schiena. Tuttavia, se doveva essere sincero con se stesso, dormire nel letto non era altrettanto piacevole. La posizione era cambiata, dato che lui e le ragazze si erano trasferiti a New York poco dopo la morte di Kate, ma il letto e il materasso matrimoniale erano sempre i loro, suoi e di Kate.

Avrebbe pensato che ormai il dolore della perdita della moglie si sarebbe attenuato, almeno leggermente. A volte lo faceva, per un po’, ma poi gli capitava di passare vicino al suo ristorante preferito o di vedere uno degli spettacoli televisivi che le piacevano tanto e si riaccendeva all’istante, fresco come se fosse successo solo qualche giorno prima.

Se per le ragazze era lo stesso, non ne parlavano. In effetti, spesso la ricordavano apertamente, che era qualcosa che Reid ancora non riusciva a fare.

C’era una sua foto su uno degli scaffali, scattata al matrimonio di un loro amico dieci anni prima. La maggior parte delle sere la teneva rovesciata, o avrebbe passato ore e ore a fissarla.

Il mondo poteva essere tremendamente ingiusto. Un giorno avevano avuto tutto, una bella casa, delle figlie fantastiche, carriere di successo. Avevano vissuto a McLean in Virginia, e lui aveva lavorato come professore associato alla vicina George Washington University. Aveva viaggiato spesso per lavoro, per seminari e come ospite docente di storia europea in scuole di tutto il paese. Kate aveva lavorato nel dipartimento di restauro allo Smithsonian American Art Museum. Le loro ragazze erano state felici. La vita era stata perfetta.

Ma come disse il poeta Robert Frost, niente rimane d’oro. Un pomeriggio d’inverno Kate era svenuta sul lavoro, o almeno era quello che avevano pensato i suoi colleghi quando all’improvviso si era accasciata e caduta dalla sedia. Avevano chiamato un’ambulanza, ma era stato troppo tardi. Era stata dichiarata morta non appena era arrivata in ospedale. Un’embolia, avevano detto. Un coagulo di sangue era arrivato al suo cervello e aveva causato un’ischemia. I dottori avevano usato termini quasi incomprensibili nelle loro spiegazioni, come se avrebbe potuto attutire il colpo.

La cosa peggiore era stata che Reid era via quando era successo. Era stato a un seminario a Houston, in Texas, a tenere lezioni sul Medioevo quando era arrivata la chiamata.

Era stato così che aveva scoperto che la moglie era morta. Una telefonata, appena uscito da una sala conferenze. Poi c’era stato il viaggio fino a casa, i tentativi di consolare le figlie nel bel mezzo del proprio dolore devastante, e infine il trasloco a New York.

Si alzò dalla poltrona e rovesciò la foto. Non gli piaceva ripensare all’ultimo periodo, alla fine e a ciò che era venuto dopo. Voleva ricordarla in quella maniera, come nella foto, Kate al suo meglio. Era ciò che sceglieva di ricordare.

C’era anche qualcos’altro, qualcosa su cui non riusciva a mettere il dito, una specie di memoria distante che cercava di risalire alla superficie mentre fissava la foto. Era quasi un déjà vu, ma non riguardava il presente. Era come se il suo subconscio stesse cercando di mandargli un messaggio.

Un colpo improvviso alla porta lo riportò alla realtà. Reid esitò, chiedendosi chi poteva essere. Era quasi mezzanotte; le ragazze erano a letto già da un paio d’ore. Il rumoroso bussare risuonò di nuovo. Temendo che potesse svegliare le ragazze, si affrettò a rispondere. Dopo tutto, viveva in un quartiere sicuro e non aveva ragione di temere di aprire la sua porta, anche se era mezzanotte.

Non fu il gelido vento invernale a paralizzarlo. Fu lo spettacolo dei tre uomini dall’altra parte della soglia. Erano mediorientali, ognuno con pelle scura, barba e occhi infossati, vestiti con grosse giacche nere e stivali. I due ai lati erano alti e magri, il terzo, un po' indietro, aveva spalle larghe e una figura imponente, oltre a una smorfia torva sul volto.

“Reid Lawson,” disse l’uomo alto sulla sinistra. “È lei?” Il suo accento sembrava iraniano, ma era poco percettibile, suggerendo che avesse passato molto tempo lontano da casa.

A Reid si seccò la gola notando, al di là delle loro spalle, un furgoncino grigio lasciato in moto davanti al marciapiede, con le luci spente. “Uhm, mi spiace,’” rispose. “Credo che abbiate sbagliato casa.”

L’uomo alto sulla destra, senza togliere lo sguardo da Reid, alzò un cellulare verso i suoi due soci. L’uomo a sinistra, senza fare domande, fece un singolo cenno con il capo.

Senza alcun preavviso, l’uomo più grosso avanzò, con una rapidità sorprendente per la sua stazza. Una mano pesante scattò verso la gola di Reid. Il professore indietreggiò senza pensare, barcollando nell’ingresso e incespicando nei propri piedi. Recuperò l’equilibrio, sfiorando il pavimento con le dita.

Mentre scivolava all’indietro, i tre uomini erano entrati in casa sua. Il panico lo riempì, pensando solamente alle figlie addormentate nei loro letti al piano di sopra.

Si voltò e attraversò di corsa l’ingresso, fino alla cucina, dove superò l’isola. Si lanciò un’occhiata alle spalle, e vide che gli uomini gli stavano dando la caccia. Il cellulare, pensò disperatamente. Era nel suo studio, sulla scrivania, e gli aggressori gli bloccavano la strada.

Doveva portarli via dalla casa e dalle ragazze. Sulla sua destra c’era la porta che dava sul cortile. La aprì di scatto e corse sulla veranda. Uno degli uomini imprecò in una lingua straniera, arabo, immaginò, mentre lo seguivano. Reid saltò sopra la ringhiera della veranda e atterrò sul prato. All’impatto un lampo di dolore gli esplose nella caviglia, ma lo ignorò. Raggiunse l’angolo della casa e si appiattì contro la parete di mattoni, cercando disperatamente di acquietare il suo respiro ansimante.

I mattoni erano gelidi al tocco e la leggera brezza invernale tagliava come un coltello. Aveva giГ  le dita dei piedi insensibili per il freddo, perchГ© era corso fuori di casa solo con i calzini. Si sentiva gli arti scossi da brividi.

Udiva gli uomini che sussurravano, con voce bassa e urgente. ContГІ quanti erano: uno, due e tre. Erano fuori di casa. Bene: significava che volevano solo lui e non le ragazze.

Doveva mettere le mani su un telefono. Non poteva tornare dentro casa senza mettere in pericolo le ragazze e non poteva neanche bussare alla porta di un vicino. No… ma c'era un telefono per le emergenze montato su un palo della luce lungo la strada. Se fosse riuscito ad arrivarci…

Fece un profondo respiro e scattГІ nel cortile buio, osando attraversare la luce gettata dai lampioni. La sua caviglia pulsГІ in segno di protesta e lo shock del freddo gli punzecchiГІ le piante dei piedi, ma si costrinse a muoversi il piГ№ in fretta possibile.

Reid si lanciò un’occhiata dietro le spalle. Uno degli uomini alti lo aveva visto. Gridò ai suoi soci, ma non si gettò all’inseguimento. Strano, pensò Reid, ma non si soffermò a farsi domande.

Raggiunse il telefono per le emergenze, aprì la sua scatola e premette il pollice sul pulsante rosso, che avrebbe mandato un allarme alla centrale più vicina del 911. Si guardò di nuovo alle spalle. Non vide nessuno degli uomini.

“Pronto?” sibilò nella cornetta. “Qualcuno mi sente?” Dove era la luce? Non avrebbe dovuto accendersi una luce quando si premeva il pulsante di chiamata? Il telefono era attivo? “Mi chiamo Reid Lawson, tre uomini mi stanno inseguendo, vivo al…”

Una mano robusta strinse i corti capelli castani di Reid e lo tirò all’indietro. Gli si bloccarono le parole in gola e si trasformarono in un rantolo.

Un momento dopo, c’era una stoffa ruvida sulla sua faccia, che lo accecava—una sacca sulla sua testa—e allo stesso tempo le sue braccia gli erano state tirate dietro la schiena e bloccate da manette. Cercò di lottare, ma era paralizzato, i polsi piegati fino a far male.

“Aspettate!” riuscì a gridare. “Vi prego…” Un colpo gli si abbatté sull’addome con tanta forza da lasciarlo senza fiato. Non riusciva a respirare, né tantomeno parlare. Un vortice di colore gli esplose davanti agli occhi e quasi svenne.

Poi cominciarono a trascinarlo. I suoi piedi nei calzini scivolavano sul cemento. Lo infilarono nel furgone e chiusero la portiera. I tre uomini si dissero qualcosa nella loro lingua sconosciuta con tono d’accusa.

“Perché?” riuscì a chiedere alla fine.

Gli infilarono un ago acuminato nel braccio e tutto il mondò svanì.




CAPITOLO DUE


Cieco. Freddo. Scosso. Assordato. Confuso. Dolorante.

La prima cosa che Reid notГІ svegliandosi fu che il mondo era buio, non riusciva a vedere niente. La puzza acre di carburante gli riempiva le narici. CercГІ di muovere le membra doloranti, ma le mani erano legate dietro la sua schiena. Stava congelando, ma non c'era un alito di vento, solo aria fredda, come se fosse seduto in un frigo.

Lentamente, come se emergessero da una nebbia, i ricordi di quello che era successo gli tornarono alla mente. I tre uomini mediorientali. La sacca sulla testa. L’ago nel braccio.

Il panico prese il sopravvento e cominciò a tirare le manette e ad agitarsi. Gli si accesero di dolore i polsi, dove il metallo delle manette gli tagliò la carne. La caviglia pulsava, spedendo ondate di sofferenza su per la sua gamba. Aveva un’intensa pressione nelle orecchie e non riusciva a sentire nulla se non il rombo di un motore.

Per un breve istante provò una strana sensazione allo stomaco, come dovuta a un’accelerazione verso l’alto. Era su un aereo. E a giudicare dal rumore non era un normale aereo passeggeri. Il rombo, l’intenso rombo del motore, la puzza di carburante… capì che doveva trovarsi su un aereo cargo.

Per quanto tempo era rimasto svenuto? Che cosa gli avevano iniettato? Le ragazze erano al sicuro? Le ragazze. Gli salirono le lacrime agli occhi, mentre sperava contro ogni buon senso che stessero bene, che la polizia avesse ricevuto il suo messaggio, che le autorità fossero state mandate a casa sua…

Si agitГІ sul suo sedile di metallo. Nonostante il dolore e la gola chiusa, provГІ a parlare.

“Sa-salve?” Fu poco più di un bisbiglio. Si schiarì la gola e provò di nuovo. “Salve? C’è qualcuno?” Si rese conto che il rumore del motore avrebbe coperto la sua voce e nessuno che non fosse stato seduto accanto a lui lo avrebbe sentito. “Salve!” provò a gridare. “Vi prego… qualcuno mi dica che…”

Una secca voce maschile gli sibilò qualcosa in arabo. Reid sussultò. L’uomo era vicino, a meno di un metro di distanza.

“Ti scongiuro, dimmi che cosa sta succedendo,” supplicò. “Che cosa volete? Perché mi state facendo questo?”

Un’altra voce gridò minacciosamente nella stessa lingua, quella volta dalla sua destra. Reid sussultò per il duro rimprovero. Sperò che il movimento dell’aereo mascherasse il tremore del suo corpo.

“Avete preso la persona sbagliata,” disse. “Che cosa volete? Denaro? Non ne ho! Posso… aspettate!” Una mano robusta si chiuse in una morsa attorno al suo braccio e fu strappato dal suo sedile. Barcollò, cercando di rimanere in piedi, ma l’instabilità dell’aereo e il dolore alla caviglia ebbero il sopravvento. Gli cedettero le ginocchia e cadde su un fianco.

Qualcosa di solido e pesante lo colpì al corpo. Il dolore si allargò per tutto il suo busto. Cercò di protestare, ma gli salirono alla bocca solo singhiozzi intellegibili.

Un altro stivale gli atterrГІ sulla schiena. Poi un altro, al mento.

Nonostante la situazione tremenda, Reid fu colto da uno strano pensiero. Quegli uomini, le loro voci, i loro colpi, tutto suggeriva una vendetta personale. Non si sentiva semplicemente attaccato. Si sentiva odiato. Erano arrabbiati, e la loro rabbia era diretta precisamente verso di lui.

Il dolore si allontanГІ, lentamente, e lasciГІ spazio a un freddo torpore che lo avvolse completamente mentre perdeva coscienza.


*

Dolore. Acuto, pulsante, incandescente.

Reid si svegliò di nuovo. I ricordi del passato… non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato, né sapeva se fosse giorno o notte, o dove si trovasse. Ma i ricordi tornarono, frammentati, come fotogrammi tagliati da una pellicola e lasciati a terra.

Tre uomini.

Il telefono delle emergenze.

Il furgone.

L’aereo

E ora…

Reid si azzardГІ ad aprire gli occhi. Fu difficile. Gli sembrava che gli avessero incollato insieme le ciglia, ma anche dietro la pelle sottile vedeva una luce accesa e rovente. Ne sentiva il calore sul volto, e distingueva la rete di capillari delle proprie palpebre.

Strizzò gli occhi. Tutto ciò che vedeva era quella luce crudele, luminosa, bianca e penetrante. Dio, gli faceva male la testa. Cercò di gemere e scoprì, grazie a una nuova scarica di dolore, che anche la mascella gli doleva. Aveva la lingua gonfia e secca, e in bocca c’era un sapore metallico. Sangue.

I suoi occhi… capì che era stato difficile aprirli perché in effetti era incollati insieme. Il lato della faccia era caldo e appiccicoso. Il sangue gli era colato dalla fronte e negli occhi, senza dubbio per via dei calci che aveva preso sull’aereo.

Ma riusciva a vedere la luce. Gli avevano tolto la sacca dalla testa. Che fosse o meno un risvolto positivo rimaneva ancora da vedere.

Mentre si abituava alla luce, cercГІ invano di muovere le mani. Erano ancora legate, ma non piГ№ da manette. Grosse corde ruvide lo tenevano fermo. Anche le sue caviglie erano strette alle gambe della sedia di legno su cui si trovava.

Dopo poco cominciГІ a intravedere sagome incerte in mezzo al chiarore. Era in una piccola stanza senza finestre con pareti irregolari di cemento. Era caldo e umido, abbastanza perchГ© il sudore lo solleticasse dietro al collo, nonostante si sentisse il corpo freddo e insensibile.

Non riusciva ad aprire del tutto l’occhio destro e provarci era doloroso. Doveva aver preso un calcio, o forse i suoi rapitori avevano continuato a picchiarlo mentre era svenuto.

La luce brillante veniva da una sottile lampada tecnica su una base alta e con le ruote, che era stata sistemata alla sua altezza e puntata verso la sua faccia. La lampadina alogena emetteva una luce intensa. Se c’era qualcos’altro dietro quella lampada, lui non riusciva a vederlo.

Sussultò quando un secco suono metallico riecheggiò nella stanzetta—il rumore di una serratura che veniva aperta. Cardini cigolarono, ma Reid non vide nessuna porta. Poi si richiuse con un frastuono discordante.

Una figura si frappose tra lui e la luce, incombendo su di lui e mettendolo in ombra. Reid tremГІ e non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo.

“Chi sei tu?” La voce era maschile, leggermente più acuta dei suoi precedenti aggressori ma colorata dallo stesso accento mediorientale.

Reid aprì la bocca per parlare, per dire che non era altro che un professore di storia e che avevano preso la persona sbagliata, ma si ricordò che l'ultima volta che ci aveva provato era stato preso a calci fino a svenire. Gli sfuggì solo un gemito.

L’uomo sospirò e si spostò dalla luce. Qualcosa fu trascinato sul pavimento di cemento, le gambe di una sedia. Lo sconosciuto spostò la lampada lontano dal volto di Reid e si sedette davanti a lui, tanto vicino che le loro ginocchia quasi si toccavano.

Reid alzò lentamente lo sguardo. L’uomo era giovane, doveva avere al massimo trent’anni, con la pelle scura e un’ordinata barba nera. Portava occhiali rotondi dalla montatura argentata e una kufi bianca, un cappello tondo senza tesa.

Dentro Reid sbocciò la speranza. Il giovane uomo sembrava un intellettuale, non come i selvaggi che lo avevano attaccato e strappato da casa sua. Forse avrebbe potuto negoziare con lui. Forse era al comando…

“Iniziamo dalle cose semplici,” disse l’uomo. La sua voce era bassa e tranquilla, parlava come uno psicologo avrebbe potuto rivolgersi a un paziente. “Come ti chiami?”

“Io… Lawson.” Al primo tentativo quasi non riuscì a parlare. Tossì, e fu vagamente allarmato di vedere gocce di sangue colpire il pavimento. L’uomo di fronte a lui arricciò disgustato il naso. “Mi chiamo… Reid Lawson.” Perché continuavano a chiedere il suo nome? Glielo aveva già detto. Aveva fatto un torto a qualcuno non volendo?

L'uomo sospirò piano, dentro e fuori dal naso. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, abbassando ancora di più la voce. “Ci sono molte persone che vorrebbero essere in questa stanza, al momento. Fortunatamente per te, siamo solo tu e io. Però se non sei sincero con me non ho altra scelta se non invitare… gli altri. E loro tendono ad avere poca compassione.” Si raddrizzò. “Quindi te lo chiedo di nuovo. Come… ti… chiami… ?”

Come poteva convincerli che era chi diceva di essere? I battiti del cuore di Reid presero velocità mentre la realizzazione lo colpiva come una mazzata alla testa. Stava rischiando di morire in quella stanza. “Ti sto dicendo la verità!” insistette. All’improvviso le parole sgorgarono dalle sue labbra, come acqua che avesse sfondato una diga. “Mi chiamo Reid Lawson. Ti prego, dimmi perché sono qui. Non so che cosa sta succedendo. Non ho fatto niente…”

L’uomo schiaffeggiò Reid sulla bocca. La sua testa scattò di lato e lui ansimò per il dolore del labbro appena spaccato.

“Il tuo nome.” L’uomo si pulì il sangue dall’anello d’oro che aveva alla mano.

“Te l’ho detto,” balbettò. “Mi chiamo Lawson.” Soffocò un singhiozzo. “Ti prego.”

Alzò lo sguardo, spaventato. Il suo interrogatore lo fissò a sua volta, impassibile e freddo. “Il tuo nome.”

“Reid Lawson!” Reid sentì il calore salirgli sulle guance, mentre il dolore si trasformava in rabbia. Non sapeva che altro dire, che cosa volessero che dicesse. “Lawson! È Lawson! Potete controllare la mia…” No, non potevano controllare la sua carta d’identità. Non aveva avuto con sé il portafoglio quanto i tre uomini lo avevano preso.

Il suo interrogatore schioccò la lingua in segno di disapprovazione e poi scagliò un pugno ossuto al centro del plesso solare di Reid. Di nuovo il professore si ritrovò senza fiato. Per un minuto intero non riuscì a respirare; e alla fine boccheggiò ansimante. Gli bruciava il petto. Gli colava il sudore sulle guance e gli bruciava sul labbro spaccato. La testa gli pendeva senza forza, il mento appoggiato sul petto, mentre lottava contro un’ondata di nausea.

“Il tuo nome,” ripeté con calma l’interrogatore.

“Io… non so che cosa vuoi che ti dica,” sussurrò Reid. “Non so che cosa stai cercando. Ma non sono io.” Stava impazzendo? Era certo di non aver fatto niente per meritarsi un trattamento di quel tipo.

L’uomo con la kufi si sporse di nuovo in avanti, prendendo gentilmente il mento di Reid tra due dita. Gli sollevò il capo, costringendolo a guardarlo negli occhi. Le sue labbra sottili si stesero in un sorrisetto.

“Amico mio,” disse. “Le cose andranno molto molto peggio, prima di migliorare.”

Reid deglutì e sentì il sapore del rame in fondo alla gola. Sapeva che il sangue era un emetico; bastavano settecento grammi per far vomitare, e lui si sentiva già nauseato e stordito. “Ascoltami,” lo implorò. La sua voce suonò tremante e timida. “Mi chiamo Reid Lawson. Sono un professore di storia europea alla Columbia University. Sono vedovo e ho due…” Si interruppe. Fino a quel momento i suoi rapitori non avevano dato nessuna indicazione di sapere delle sue figlie. “Se non è questo che state cercando, non posso aiutarvi. Ti prego. È la verità.”

L’interrogatore lo fissò per un lungo momento, senza battere ciglio, poi disse seccamente qualcosa in arabo. Reid sussultò a quello scatto improvviso.

La serratura si aprì di nuovo. Oltre la spalla dell’uomo, Reid vide apparire la forma della porta. Sembrava di qualche tipo di metallo, ferro o acciaio.

La stanza, capì, era stata costruita per essere una cella di prigione.

Una sagoma apparve all’ingresso. L’interrogatore disse qualcos’altro nella sua lingua nativa, e la sagoma svanì. Sogghignò verso Reid. “Lo vedremo,” disse semplicemente.

Accompagnato da un cigolio di ruote, la sagoma riapparve, quella volta spingendo un carrello metallico nella stanzetta di cemento. Reid riconobbe chi lo spingeva, era l’uomo grosso e silenzioso che era apparso a casa sua, con la stessa espressione accigliata di prima.

Sul carrello c’era una macchina arcaica, una scatola marrone con una decina di manopole e manovelle e grossi cavi neri che spuntavano da un lato. Dal lato opposto emergeva un rotolo di carta bianca su cui si agitavano aghi sottili.

Era un poligrafo, probabilmente vecchio quanto Reid, ma comunque una macchina della veritГ . SospirГІ per il sollievo. Almeno avrebbero capito che stava dicendo la veritГ .

Che cosa gli avrebbero fatto in seguito… preferiva non pensarci.

L’interrogatore cominciò a stringere i due sensori con il velcro alle sue dita, un manicotto attorno al suo bicipite sinistro e due corde attorno al suo petto. Si sedette di nuovo, estrasse una matita dalla tasca e si infilò l’estremità con la gomma rosa in bocca.

“Sai che cosa è,” disse semplicemente. “Sai come funziona. Se dici qualsiasi cosa che non sia la risposta alle mie domande, ti faremo del male. Lo capisci?”

Reid annuì una volta sola. “Sì.”

L’interrogatore premette un pulsante e armeggiò con le manopole sulla macchina. Il gigante accigliato era immobile dietro di lui, bloccando la luce della lampada e fissando storto Reid.

Gli aghi sottili si mossero leggermente sopra il rotolo di carta bianca, lasciando quattro segni neri. L’interrogatore scarabocchiò qualcosa sul foglio e poi spostò lo sguardo freddo su Reid. “Di che colore è il mio cappello?”

“Bianco,” rispose piano Reid.

“Di che specie sei tu?”

“Umano.” L’interrogatore stava stabilendo i valori di riferimento per le successive domande—di solito si annotavano quattro o cinque verità per controllare le potenziali bugie.

“In che città vivi?”

“New York.”

“Dove sei ora?”

Reid quasi sbuffò. “In una… sedia. Non lo so.”

L’interrogatore fece qualche segno intermittente sulla carta. “Come ti chiami?”

Reid fece del suo meglio per tenere ferma la voce. “Reid Lawson.”

Tutti e tre stavano fissando la macchina. Gli aghi continuarono indisturbati; non c’erano creste o vallate significative nelle linee tracciate.

“Che lavoro fai?” chiese l’interrogatore.

“Sono un professore di storia europea alla Columbia University.”

“Da quanto tempo fai il professore?”

“Tredici anni,” rispose sinceramente Reid. “Sono stato assistente professore per cinque e professore aggiunto in Virginia per sei. Da due anni sono professore associato a New York.”

“Sei mai stato a Tehran?”

“No.”

“Sei mai stato a Zagreb?”

“No!”

“Sei mai stato a Madrid?”

“N-sì. Una volta, circa quattro anni fa. Sono andato per un summit, mi ci ha mandato l’università.”

Gli aghi rimasero stabili.

“Non vedete?” Per quanto Reid avrebbe voluto gridare, cercò di rimanere calmo. “Avete la persona sbagliata. Chiunque stiate cercando, non sono io.”

L’interrogatore spalancò le narici, ma altrimenti non reagì. Il gigante congiunse le mani davanti a sé, le vene in netto rilievo sulla sua pelle.

“Hai mai incontrato un uomo chiamato sceicco Mustafar?” chiese l’interrogatore.

Reid scosse la testa. “No.”

“Sta mentendo!” Un uomo alto e magro entrò nella stanza, uno dei due che lo avevano aggredito a casa sua, lo stesso che gli aveva chiesto per primo come si chiamasse. Si avvicinò a grandi passi, lo sguardo ostile puntato su Reid. “La macchina può essere aggirata. Lo sappiamo.”

“Ci sarebbe qualche segno,” replicò con calma l’interrogatore. “Il linguaggio del corpo, il sudore, i segni vitali. Tutto indica che sta dicendo la verità.” Reid non poté evitare di pensare che stessero parlando in inglese a suo beneficio.

L’uomo alto si girò e cominciò ad aggirarsi per la stanzetta di cemento, borbottando furioso in arabo. “Chiedigli di Tehran.”

“L’ho fatto,” rispose l’interrogatore.

Allora lui si voltГІ verso Reid, furibondo. Il professore trattenne il fiato, aspettandosi di essere colpito.

Invece, l’uomo riprese a camminare. Disse rapidamente qualcosa in arabo. L’interrogatore rispose. Il gigante fissò Reid.

“Vi prego!” disse lui ad alta voce sopra le loro parole. “Non sono chi pensate voi, non ho memoria di quello di cui state parlando…”

L’uomo alto ammutolì e sgranò gli occhi. Fece un gesto come per colpirsi la fronte, e poi parlò concitato all’interrogatore. L’uomo impassibile con la kufi si accarezzò il mento.

“È possibile,” disse in inglese. Si alzò e prese la testa di Reid tra entrambe le mani

“Che cosa significa? Cosa stai facendo?” chiese Reid. Le punte delle dita dell’uomo si mossero lentamente su e giù per il suo scalpo.

“Silenzio,” disse piatto lui. Tastò l’attaccatura dei capelli di Reid, il suo collo, le sue orecchie… “Ah!” esclamò poi. Disse qualcosa al suo socio, che si avvicinò di corsa e piegò la testa di Reid di lato.

L’interrogatore passò un dito lungo il mastoide sinistro di Reid, la piccola sporgenza d’osso appena dietro l’orecchio. C’era un bozzo allungato sotto la pelle, poco più grande di un chicco di riso.

Disse qualcosa all’uomo alto e quest’ultimo uscì rapidamente dalla stanza. A Reid doleva il collo per via della strana angolazione a cui stavano tenendo la sua testa.

“Cosa? Cosa sta succedendo?” chiese.

“Questo ingrossamento, qui,” disse l’uomo, passandoci di nuovo un dito sopra. “Che cosa è questo?”

“È solo un’irregolarità dell’osso,” disse Reid. “Ce l’ho da un incidente d’auto che ho avuto quando avevo vent’anni.”

L’uomo alto tornò rapidamente, quella volta con un vassoio di plastica. L’appoggiò sul carrello, vicino al poligrafo. Nonostante la luce fioca e l’angolo a cui gli tenevano la testa, Reid vide chiaramente che cosa c’era nel vassoio. Un nodo di paura gli attorcigliò lo stomaco.

Dentro il vassoio c’erano diversi strumenti di metallo lucente.

“A che cosa servono quelli?” C’era il panico nella sua voce. Si agitò tra le corde. “Che cosa state facendo?”

L’interrogatore diede un rapido comando al gigante. Lui fece un passo in avanti e l’improvvisa luce della lampada quasi accecò Reid.

“Aspetta… aspetta!” gridò. “Dimmi che cosa vuoi sapere!”

Il gigante gli prese la testa in una grande mano e la strinse con forza, costringendolo a fermarsi. L’interrogatore scelse uno strumento, uno scalpello dalla lama sottile.

“Vi prego, non… non…” Reid cominciò ad ansimare in fretta. Stava quasi iperventilando.

“Sssh,” disse con calma l’interrogatore. “È meglio se rimani fermo. Non voglio tagliarti l’orecchio. Almeno, non per sbaglio.”

Reid gridò quando la lama tagliò la pelle dietro l’orecchio, ma il gigante lo tenne immobile. Ogni muscolo delle sue braccia si tese.

Uno strano suono lo raggiunse, una dolce melodia. L’interrogatore stava cantando una canzone in arabo mentre affettava la testa di Reid.

LasciГІ cadere lo scalpello insanguinato nel vassoio mentre Reid continuava a respirare sibilando tra i denti. Poi afferrГІ un paio di pinze piane.

“Temo che quello fosse solo l’inizio,” gli sussurrò all’orecchio. “La prossima parte farà davvero male.”

Le pinze si strinsero attorno a qualcosa nella testa di Reid—l’osso del cranio?—e l’interrogatore tirò. Reid gridò per l’agonia, mentre un dolore accecante gli attraversava il cervello, pulsando nelle sue terminazioni nervose. Gli tremarono le mani. Sbatté i piedi sul pavimento.

Il dolore crebbe fino a quando Reid pensò che non sarebbe più riuscito a resistere. Il sangue gli pompava nelle orecchie e le sue stesse grida sembravano lontanissime. Poi la luce della lampada si affievolì, vide tutto nero e perse i sensi.




CAPITOLO TRE


A ventitré anni, Reid aveva avuto un incidente in auto. Il semaforo era diventato verde e lui aveva attraversato l’incrocio. Un furgone era passato con il rosso ed era andato a schiantarsi nel lato del suo sedile del passeggero. Aveva battuto la testa ed era rimasto svenuto per diversi minuti.

L’unica ferita era stata una frattura all’osso temporale. Era guarita bene, e l’unica prova dell’incidente era un piccolo ingrossamento dietro l’orecchio. Il dottore gli aveva detto che era una malformazione ossea.

La cosa buffa era che anche se ricordava l’incidente, non aveva memoria del dolore, né durante l’evento ma neanche dopo.

In quel momento lo sentiva. Mentre tornava in sé, la piccola zona ossea dietro l’orecchio pulsava d’agonia. La lampada tecnica gli brillava di nuovo negli occhi. Lui li strinse e gemette piano. Anche il minimo movimento del capo gli provocava una nuova ondata di dolore giù per il collo.

All’improvviso fu colpito da un pensiero. La luce accecante nei suoi occhi non era affatto la lampada.

Il sole del pomeriggio brilla in un cielo azzurro e sereno. Un Warthog A-10 vola sopra di lui, piegandosi a destra e abbassandosi sui tetti piatti e grezzi di Kandahar.

L’immagine non era fluida. Appariva in lampi, come diverse fotografie in sequenza, come guardare qualcuno ballare sotto una luce stroboscopica.

Sei in piedi su un tetto di un edificio parzialmente distrutto, un terzo del quale era stato abbattuto da una cannonata. Porti il calcio alla spalla, l’occhio al mirino, e punti un uomo al di sotto…

Reid mosse di scatto la testa e gemette. Era nella stanzetta di cemento, sotto l’occhio attento della lampada tecnica. Gli tremavano le dita e sentiva freddo a tutto il corpo. Il sudore gli gocciolava lungo la fronte. Probabilmente stava andando in shock. Con la coda dell’occhio notò che la spalla sinistra della camicia era intrisa di sangue.

“Un'irregolarità dell’osso,” disse la voce placida dell’interrogatore. Poi ridacchiò sarcastico. Una mano snella apparve davanti al suo campo visivo, stringendo le pinze. Tra le ganasce c’era un minuscolo oggetto argentato, ma Reid non riusciva a distinguere i dettagli. La sua vista era annebbiata e tutta la stanza girava. “Sai che cosa è?”

Reid scosse lentamente la testa.

“Lo ammetto, ne avevo visto solo uno prima,” disse. “Un chip di soppressione della memoria. È uno strumento molto utile per le persone nella tua particolare situazione.” Lasciò cadere le pinze insanguinate e il granello argentato nel vassoio di plastica.

“No,” grugnì Reid. “Impossibile.” L’ultima parola fu poco più di un bisbiglio. Soppressione della memoria? Era fantascienza. Per funzionare, avrebbe dovuto influenzare l’intero sistema limbico del cervello.

Il quinto piano del Ritz a Madrid. Ti sistemi la cravatta nera prima di sferrare un solido calcio appena sopra la maniglia. L’uomo all’interno è preso alla sprovvista; salta in piedi e afferra una pistola dal comò. Ma prima che riesca a puntartela contro, gli prendi la mano e la pieghi lontano. La forza del gesto gli spezza con facilità il polso…

Reid si riscosse dalla scena confusa che gli era apparsa nella mente, mentre l’interrogatore si riaccomodava davanti a lui.

“Mi hai fatto qualcosa,” borbottò.

“Sì,” concordò l’interrogatore. “Ti ho liberato dalla tua prigione mentale.” Si sporse in avanti con un ghigno a labbra strette, cercando qualcosa negli occhi di Reid. “Stai ricordando. È uno spettacolo affascinante. Sei confuso. Le tue pupille sono dilatate in maniera anormale, nonostante la luce. Che cosa è reale, �professor Lawson’?”

Lo sceicco. Con ogni mezzo possibile.

“Quando i nostri ricordi ci abbandonano…”

Ultimo avvistamento: Una casa sicura a Teheran.

“Chi siamo noi?”

Un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua… chi lo ha detto?

“Chi diventiamo?”

Lo hai detto tu.

Reid si sentì scivolare nel vuoto. L’interrogatore lo schiaffeggiò due volte, riportandolo nella stanza di cemento. “Ora possiamo continuare. Quindi te lo domando di nuovo: Come… ti… chiami?”

Entri da solo nella sala degli interrogatori. Il sospettato è ammanettato a un bullone attaccato al tavolo. Infili una mano nella tasca interna dell’abito, ne estrai un portadocumenti in pelle con dentro una carta d’identità e lo apri…

“Reid Lawson.” La sua voce era incerta. “Sono un professore… di storia europea…”

L’interrogatore sospirò deluso. Fece cenno di avvicinarsi al gigante corrucciato e un pesante pugno si abbatté sulla guancia di Reid. Un molare rimbalzò sul pavimento accompagnato da uno spruzzo di sangue fresco.

Per un momento, non ci fu dolore; la sua faccia era insensibile, pulsante per l’impatto. Poi una nuova ondata di agonia ebbe il sopravvento.

“Nggh…” Cercò di formare delle parole, ma le sue labbra non si muovevano.

“Te lo chiedo di nuovo,” disse l’interrogatore. “Tehran?”

Lo sceicco si era nascosto in una casa sicura camuffata da fabbrica tessile.

“Zagreb?”

Due uomini iraniani arrestati in un aeroporto privato, mentre stanno per salire a bordo di un aereo per Parigi.

“Madrid?”

Il Ritz, quinto piano: una cella dormiente attivata con una bomba in una valigetta. Destinazione presunta: la Plaza de Cibeles.

“Lo sceicco Mustafar?”

Ha contrattato per avere salva la vita. Ci ha detto tutto quello che sapeva. Nomi, luoghi, piani. Ma non sapeva abbastanza…

“Lo so che stai ricordando,” disse l’interrogatore. “Il tuo sguardo ti tradisce… Zero.”

Zero. Un'immagine gli lampeggia davanti agli occhi: Un uomo con degli occhiali da aviatore e una giacca da motociclista scura. È in un angolo di una qualche città europea. Si muove insieme alla folla. Nessuno sa chi è. Nessuno sa che è lì.

Ancora una volta Reid cercò di togliersi quelle visioni dalla testa. Che cosa gli stava succedendo? Gli danzavano nella mente come sequenze in stop-motion, ma lui si rifiutava di accettarle come ricordi. Erano falsi. Impiantati, in qualche maniera. Era un professore universitario, con due figlie adolescenti e una umile casa nel Bronx…

“Dicci che cosa sai dei nostri piani,” chiese impassibile l’interrogatore.

Noi non parliamo. Mai.

Le parole gli riecheggiarono nella mente, ancora e ancora. Noi non parliamo. Mai.

“Ci sta mettendo troppo tempo!” gridò l’uomo iraniano più alto. “Costringilo.”

L’interrogatore sospirò. Tese una mano verso il carrello di metallo, ma non per accendere il poligrafo. Invece le sue dita si soffermarono sulla vaschetta di plastica. “Di solito sono un uomo paziente,” disse a Reid. “Ma devo ammettere che la frustrazione del mio socio è piuttosto contagiosa.” Sollevò lo scalpello insanguinato, lo strumento che aveva usato per tagliare il granello argentato dalla sua testa, e premette gentilmente la punta della lama contro i jeans di Reid, una decina di centimetri sopra il ginocchio. “Tutto ciò che vogliamo sapere è che informazioni hai. Nomi. Date. A chi hai detto quello che sai. Le identità dei tuoi colleghi in campo.”

Morris. Reidigger. Johansson. I nomi gli apparvero davanti agli occhi, ognuno accompagnato da un volto che non aveva mai visto prima. Un uomo giovane dai capelli scuri e il sorriso arrogante. Un altro dall’aspetto amichevole e bonaccione in una rigida camicia bianca. Una donna dai lunghi capelli biondi e occhi grigi e severi.

“E che cosa ne è stato dello sceicco.”

In qualche modo Reid sapeva che lo sceicco in questione era stato catturato e portato in una prigione segreta in Marocco. Non era una visione. Era semplicemente quello che sapeva.

Noi non parliamo. Mai.

Un brivido freddo corse lungo la sua spina dorsale mentre lottava per tenere stretta la sua sanitГ  mentale.

“Dimmelo,” insisté l’interrogatore.

“Non lo so.” Le parole erano strane sulla sua lingua gonfia. Alzò lo sguardo allarmato e vide che l’altro uomo gli stava sogghignando.

Aveva capito la domanda fatta in una lingua straniera… e aveva risposto in un perfetto arabo.

L’interrogatore spinse la punta dello scalpello nella gamba di Reid. Lui gridò quando la lama penetrò il muscolo della sua coscia. Istintivamente cercò di spostarsi, ma aveva le caviglie legate alla sedia.

Strinse con forza i denti, la mascella dolorante in reazione. La ferita alla gamba bruciava intensamente. L’interrogatore sogghignò e piegò leggermente la testa. “Devo ammettere che sei più tosto di molti altri, Zero,” disse in inglese. “Sfortunatamente per te, io sono un professionista.” Si abbassò per sfilargli uno dei calzini ormai sporchi. “Non mi capita spesso di dover usare questa tecnica.” Si raddrizzò e lo guardò direttamente negli occhi. “Ecco cosa sta per succedere: io ti taglierò via dei piccoli pezzi e te li farò vedere, uno a uno. Inizieremo con le dita dei piedi. Poi con quelle delle mani. Dopo di che… vedremo cosa vorrai fare.” L’interrogatore si inginocchiò e premette la lama contro il dito più piccolo del suo piede destro.

“Aspetta,” supplicò Reid. “Ti prego, aspetta.”

Gli altri due uomini gli si avvicinarono, guardandolo interessati.

Disperato, Reid strinse le corde che gli tenevano bloccati i polsi. Era un nodo da pescatore con due cappi opposti legati con due mezzi colli…

Un intenso brivido lo attraversò dalla base della spina dosale alle spalle. Lui sapeva. In qualche modo sapeva e basta. Provava una forte sensazione di déjà vu, come se fosse già stato in quella situazione, o piuttosto, come se quelle visioni pazzesche che si erano impiantate nella sua mente gli stessero dicendo che era così.

Ma ben piГ№ importante, sapeva che cosa doveva fare.

“Te lo dirò!” ansimò. “Ti dirò che cosa vuoi sapere.”

L’interrogatore alzò lo sguardo. “Sì? Bene. Per prima cosa, comunque, ti taglierò questo dito. Non vorrei che pensassi che stavo bluffando.”

Dietro la sedia, Reid strinse il pollice sinistro nella mano opposta. Trattenne il fiato e diede uno strattone. Sentì la sensazione di distacco quando il pollice si dislocò e attese l’arrivo di un dolore acuto e intenso, ma fu poco più di una vaga fitta.

Fu colpito da un nuovo pensiero: non era la prima volta che gli succedeva.

L’interrogatore tagliò la pelle del suo dito del piede e lui strillò. Con il pollice a un’angolazione opposta alla solita, riuscì a sfilare la mano dal cappio. Una volta liberato uno dei due nodi anche l’altro cedette.

Aveva le mani libere, ma nessuna idea di cosa farci.

L’interrogatore alzò lo sguardo e corrugò le sopracciglia in un'espressione confusa. “Cosa…?”

Prima che riuscisse a dire un'altra parola, la mano destra di Reid scattò e afferrò il primo strumento che trovò, un coltello di precisione dal manico nero. L’interrogatore provò ad alzarsi e Reid si mosse. Gli tagliò la carotide con la lama.

Lui si portГІ entrambe le mani alla gola. Il sangue gli colГІ tra le dita mentre crollava con gli occhi sgranati a terra.

Il gigante ruggì furibondo e corse in avanti. Strinse le grosse mani attorno alla gola di Reid e premette. Reid cercò di pensare ma era sopraffatto dalla paura.

Il momento dopo stava alzando di nuovo il coltello di precisione e stava pugnalando il polso del gigante. Roteò la spalla mentre spingeva, e gli aprì un varco su per l’avambraccio. Il gigante gridò e cadde, afferrandosi la profonda ferita.

L’uomo alto e magro lo fissava sbalordito. Proprio come in precedenza, nella strada davanti a casa di Reid, sembrava esitare ad avvicinarsi. Invece, armeggiò con il vassoio di plastica alla ricerca di un’arma. Prese una lama ricurva e si gettò contro il suo petto.

Il professore scagliГІ in avanti il proprio peso, facendo cadere la sedia ed evitando per poco il coltello. Allo stesso tempo, spinse le gambe verso l'esterno con tutta la forza che aveva. Quando cadde sul cemento, la struttura della sedia cedette. Reid si alzГІ barcollando, con le membra indebolite.

L’uomo chiese aiuto in arabo, e agitò il coltello in aria senza controllo, in larghe arcate avanti e indietro per tenere Reid alla larga. Lui rimase lontano, guardando ipnotizzato il movimento della lama argentea. L’uomo spinse il braccio a destra e Reid gli saltò addosso, intrappolando il coltello, e il suo braccio, tra i loro corpi. Lo slancio li spinse entrambi in avanti e mentre l’iraniano cadeva, Reid si contorse per tagliare l’arteria femorale dietro la sua coscia. Poi piantò a terra un piede e mosse il coltello in senso inverso, per perforargli la giugulare.

Non aveva idea di come facesse a saperlo, ma era consapevole che all’uomo rimanevano quarantasette secondi di vita.

Dalle scale vicine venne rumore di passi. Con mani tremanti, Reid scattò verso la porta e si premette a un lato della soglia. La prima cosa a entrare fu una pistola, che lui identificò immediatamente come una Beretta 92 FS, seguita da un braccio e poi un torso. Reid volteggiò su di sé, prese la pistola nell’incavo nel gomito e infilò di lato il coltello di precisione tra due costole. La lama trapassò il cuore dell’uomo. Il grido gli rimase bloccato sulle labbra mentre scivolava a terra.

Poi regnГІ il silenzio.

Reid barcollò all’indietro. Respirava in deboli ansimi.

“Oh, Dio,” ansimò. “Oh, Dio.”

Aveva appena ucciso… no, aveva appena assassinato quattro uomini nell’arco di pochi secondi. La cosa peggiore era che era stata un’azione di riflesso, d’impulso, come andare in bicicletta. O parlare in arabo all’improvviso. O conoscere il fato di uno sceicco.

Era un professore. Aveva dei ricordi. Aveva dei figli. Una carriera. Ma chiaramente il suo corpo sapeva come combattere, anche se lui non aveva idea del perchГ©. Sapeva come liberarsi dalle corde. Sapeva come sferrare un colpo mortale.

“Che cosa mi sta succedendo?” ansimò.

Si coprì gli occhi mentre un’ondata di nausea lo assaliva. C’era del sangue sulle sue mani, letteralmente. Sangue sulla sua maglietta. Man mano che l’adrenalina lo lasciava, le membra cominciavano a dolergli per essere stato fermo troppo a lungo. La caviglia gli pulsava ancora per il salto giù dalla veranda. Era stato pugnalato a una coscia. Aveva una ferita aperta dietro l’orecchio.

Non voleva nemmeno pensare a come fosse il suo volto in quel momento.

Esci di qui, gli gridГІ il suo cervello. Ne possono arrivare altri.

“Okay,” disse ad alta voce, come se stesse concordando con qualcun altro nella stanza. Cercò di rallentare i suoi ansimi meglio che poté e scrutò l’ambiente dove si trovava. Il suo sguardo offuscato si concentrò su certi dettagli, come la Beretta. Un rigonfiamento rettangolare nella tasca del suo interrogatore. Uno strano segno sul collo del gigante.

Si inginocchiò di fianco al grosso uomo e fissò la cicatrice. Era vicina alla mascella, parzialmente oscurata dalla barba, e non più grande di una monetina. Sembrava una specie di marchio, inciso a fuoco nella pelle, e con l’aspetto di un glifo, come una lettera di un altro alfabeto. Non lo riconosceva. Reid lo studiò per diversi secondi, memorizzandolo.

Cercò rapidamente nella tasca dell’interrogatore morto e trovò un antico telefono cellulare. Probabilmente un telefono usa e getta, gli comunicò il suo cervello. In tasca all'uomo alto c’era un pezzo di carta bianca, con un angolo macchiato di sangue. In una scrittura scarabocchiata e quasi illeggibile c’era una lunga serie di numeri che iniziava per 963, il prefisso internazionale per chiamare la Siria.

Su nessuno degli uomini c’erano segni identificativi, ma l’ultimo con la pistola aveva una grossa mazzetta di banconote in euro, forse qualche migliaio. Reid si infilò anche quella in tasca, e infine prese la Beretta. Il peso dell'arma gli sembrava stranamente naturale tra le mani. Calibro nove millimetri. Cartuccia di quindici colpi. Cilindro da centoventicinque millimetri.

Le sue mani estrassero abilmente il caricatore in un gesto fluido, come se fossero controllate da qualcun altro. Tredici colpi. Lo rinfilò e  l’armò.

Poi uscì di lì.

Fuori dalle grosse porte di metallo c’era uno squallido corridoio che finiva in una scalinata, che a sua vota portava verso l’alto. In cima si intravedeva la luce del giorno. Reid fece cautamente le scale, con la pistola alzata, ma non udì niente. L’aria diventava sempre più fresca man mano che saliva.

Si trovГІ in una piccola cucina sporca, con le pareti scrostate e pile di piatti coperti di rimasugli dentro il lavandino. Le finestre erano traslucide, imbrattate di grasso. Il radiatore in un angolo era freddo al tocco.

Reid controllò il resto dalla casetta; non c’era nessun altro a parte i quattro uomini morti nello scantinato. L’unico bagno era in uno stato persino peggiore della cucina, ma vi trovò un kit di pronto soccorso dall’aria antica. Non osò guardarsi allo specchio mentre si lavava quanto più sangue poteva dal volto e dal collo. Tutto, dalla testa ai piedi, gli faceva male, era indolenzito o bruciava. Il piccolo tubetto di antisettico era scaduto tre anni prima, ma lo usò ugualmente, sussultando mentre premeva le bende sui tagli aperti.

Poi si sedette sul water e si strinse la testa tra le mani, prendendosi un momento per recuperare la calma. Potresti andartene, si disse. Hai dei soldi. Vai all’aeroporto. No, non hai un passaporto. Vai all’ambasciata. O trova un consolato. Ma…

Ma aveva appena ucciso quattro uomini, e il suo sangue era sparso per tutto lo scantinato. E c'era anche un altro problema, molto piГ№ grave.

“Non so chi sono,” mormorò ad alta voce.

Quei lampi, quelle visioni che gli apparivano nella mente, erano tutti dalla sua prospettiva. Il suo punto di vista. Ma non aveva, non avrebbe mai fatto niente del genere. Soppressione della memoria, aveva detto l’interrogatore. Era  mai possibile? Pensò di nuovo alle sue figlie. Erano al sicuro? Avevano paura? Erano… sue?

Quell’idea lo scosse nel profondo. E se, in qualche modo, quello che aveva creduto fosse reale non lo fosse stato affatto?

No, si disse con fermezza. Erano le sue figlie. Era stato presente alla loro nascita. Le aveva cresciute. Nessuna di quelle visioni bizzarre e intrusive lo contraddiceva. E doveva trovare un modo per contattarle, per accertarsi che stessero bene. Erano la sua prioritГ  principale. Non poteva usare il cellulare usa e getta per contattare la sua famiglia, non sapeva se fosse tracciato o chi potesse essere in ascolto.

Improvvisamente ricordò il pezzo di carta con sopra il numero di telefono. Si alzò e lo tirò fuori dalla tasca. Fissò la carta macchiata di sangue. Non sapeva di cosa si trattasse o perché credessero che fosse una persona diversa da quella che diceva di essere, ma nelle profondità della sua coscienza c’era una certa urgenza, qualcosa che diceva che suo malgrado era stato coinvolto in un affare molto, molto più grande di lui.

Con mani tremanti, fece il numero sul cellulare.

Una burbera voce maschile rispose al secondo squillo. “Avete fatto?” chiese in arabo.

“Sì,” rispose Reid. Cercò di mascherare la voce il meglio possibile e di fingere l’accento giusto.

“Hai le informazioni?”

“Mh.”

La voce rimase in silenzio per un lungo momento. Il cuore di Reid gli tamburellava nel petto. Aveva capito che non era l’interrogatore?

“Rue de Stalingrad 187,” disse alla fine l’uomo. “Alle otto di sera.” E riappese.

Reid chiuse il cellulare e fece un profondo respiro. Rue de Stalingrad? pensГІ. In Francia?

Non sapeva ancora cosa fare. Gli sembrava che la sua mente avesse buttato giù un muro e che avesse scoperto un’altra stanza dall’altra parte. Non poteva tornare a casa senza sapere che cosa gli stava succedendo. E anche se lo avesse fatto, quanto ci sarebbe voluto perché ritrovassero lui e le ragazze, come la prima volta? Tutto quello che aveva era un indizio. Doveva seguirlo.

Uscì dalla piccola casa e si ritrovò in un vicolo stretto, che si apriva su una strada chiamata Rue Marceau. Capì subito dove era, un sobborgo di Parigi, a poca distanza dalla Senna. Gli venne quasi da ridere. Aveva creduto di essere in mezzo alle strade distrutte dalla guerra di una città del Medio Oriente. Invece era in un viale pieno di negozi e casette a schiera, dove normali passanti si godevano il pomeriggio, infagottati contro la gelida brezza di febbraio.

Si infilò la pistola nella vita dei jeans e uscì in strada, mescolandosi alla folla e cercando di non attirare l’attenzione sulla maglia sporca di sangue, le bende o gli ovvi lividi. Si strinse le braccia attorno al corpo. Avrebbe avuto bisogno di nuovi abiti, una giacca, e qualcosa di più caldo di una camicia.

Doveva accertarsi che le sue ragazze fossero al sicuro.

Poi avrebbe trovato delle risposte.




CAPITOLO QUATTRO


Camminare per le strade di Parigi era un sogno, solo che c’era finito in una maniera che nessuno si sarebbe auspicato. Reid raggiunse l’incrocio tra Rue de Berri e Avenue des Champs-Élysées, una zona sempre frequentata di turisti nonostante il tempo freddo. L’Arc de Triomphe si profilava in lontananza a nord-ovest, il monumento centrale di Place Charles de Gaulle, ma la sua grandezza era invisibile agli occhi di Reid. Una nuova visione gli era apparsa nella mente.

Sono già stato qui. Sono stato in questo punto a guardare i cartelli stradali. Indossavo jeans e una giacca nera da motociclista, i colori del mondo appiattiti dagli occhiali scuri…

Voltò verso destra. Non era certo di che cosa avrebbe trovato, ma aveva lo strano sospetto che l’avrebbe capito quando lo avesse visto. Era una sensazione bizzarra, non sapere dove stava andando fino a quando non fosse arrivato a destinazione.

Si sentiva come se ogni nuovo panorama portasse con sé un vago ricordo, ognuno sconnesso dall’altro, ma in un certo modo congruenti. Sapeva che il bar all’angolo vendeva i migliori pasticcini che avesse mai gustato. Il profumo dolce della pasticceria dall'altra parte della strada gli faceva venire l’acquolina in bocca e voglia di ventagli di pasta sfoglia. Ma non li aveva mai mangiati. Non era così?

Persino i suoni lo turbavano. I passanti chiacchieravano pigramente mentre passeggiavano per il viale, lanciando occhiate rapide al suo volto contuso e bendato.

“Non voglio sapere che faccia ha il tizio con cui si è scontrato,” borbottò un giovane francese alla sua ragazza. Entrambi ridacchiarono.

Okay, niente panico, pensò Reid. A quanto pare conosco l’arabo e anche il francese. L’unico altro linguaggio che il professor Lawson parlava era il tedesco, e qualche frase in spagnolo.

C’era anche qualcos’altro, di più difficile da definire. Sotto i nervi scossi e l’istinto di scappare, di tornare a casa, di andare a nascondersi, sotto tutto quello c’era una corrente fredda e dura come l’acciaio. Era come avere la mano pesante di un fratello maggiore sulla spalla, una voce in fondo alla mente che diceva: Rilassati. Sai cosa fare.

Mentre quella voce lo sospingeva dolcemente dal fondo della sua stessa mente, al centro dei suoi pensieri c’erano le sue ragazze e la loro sicurezza. Dove erano? A che cosa stavano pensando in quel momento? Che cosa gli sarebbe successo se avessero perso entrambi i genitori?

Non aveva mai smesso di pensare a loro. Persino mentre lo picchiavano in quell’orribile prigione nello scantinato, anche con quelle visioni che si intrufolavano nella sua testa, continuava a pensare alle sue figlie, e in particolare all’ultima questione. Che cosa gli sarebbe successo se fosse morto in quello scantinato? O se fosse morto in quella assurda missione che stava intraprendendo?

Doveva esserne sicuro. In qualche modo doveva mettersi in contatto con loro.

Per prima cosa gli serviva una giacca, e non solo per coprire la camicia sporca di sangue. La temperatura a febbraio si aggirava intorno ai dieci gradi, ma era comunque troppo freddo per girare in camicia. Il viale formava una specie di tunnel del vento e la brezza era gelida. Si infilò nella boutique d’abiti più vicina e scelse il primo cappotto che colse il suo sguardo: una giacca di pelle color marrone scuro, con la fodera di lana. Strano, pensò. Non avrebbe mai scelto una giacca come quella in passato, vista la sua passione per il tweed e il plaid, ma ne era stato attirato.

La giacca di pelle costava duecentoquaranta euro. Niente di grave, aveva le tasche piene di soldi. Scelse anche una camicia nuova, una maglietta color grigio ardesia e poi un paio di jeans, calzini nuovi e robusti stivali marroni. PortГІ tutti gli indumenti al bancone e pagГІ in contanti.

Su una delle banconote c’era un’impronta insanguinata, ma il commesso dal volto impassibile fece finta di non notarla. Una visione simile a un lampo gli apparve nella mente:

“Un uomo entra in una stazione di servizio coperto di sangue. Paga la sua benzina e fa per andarsene. Il benzinaio sbalordito lo chiama: �Ehi, amico, stai bene?’ L’uomo sorride. �Oh, sì, tutto a posto. Non è il mio sangue.’”

Non ho mai sentito questa barzelletta prima di adesso.

“Posso usare i vostri camerini?” chiese in francese.

Il commesso indicГІ verso il fondo del negozio. Non aveva pronunciato una sola parola per tutta la transazione.

Prima di cambiarsi, Reid si guardГІ per la prima volta in uno specchio pulito. GesГ№, aveva un aspetto spaventoso. Il suo occhio destro si stava gonfiando e il sangue aveva macchiato le bende. Avrebbe dovuto trovare una farmacia e comprare del materiale da primo soccorso decente. Si sfilГІ i jeans luridi e macchiati di sangue sulla coscia ferita, sussultando per il dolore. Qualcosa cadde a terra, spaventandolo. La Beretta. Si era quasi dimenticato di averla.

La pistola era più pesante di quanto si sarebbe immaginato. Novecento quarantacinque grammi, scarica, pensò. Prenderla in mano era come abbracciare un ex amante, familiare ed estraneo allo stesso tempo. La appoggiò e finì di cambiarsi, spinse i vestiti vecchi nella busta del negozio e si infilò la pistola nella vita dei nuovi jeans, dietro la schiena.

Sul viale, Reid tenne la testa bassa e camminГІ in fretta, con lo sguardo puntato sul marciapiede. Non aveva bisogno di essere distratto da altre visioni in quel momento. GettГІ la busta con i vestiti vecchi in un cassonetto in un angolo senza nemmeno rallentare.

“Oh! Excusez-moi,” si scusò quando colpì con una spallata una donna di passaggio in un tailleur elegante. Lei gli lanciò un’occhiataccia. “Mi dispiace molto.” La donna sbuffò e si allontanò. Reid si infilò le mani nelle tasche della giacca, insieme al cellulare che le aveva sfilato dalla borsetta.

Era stato facile. Troppo facile.

Un paio di isolati dopo, si rifugiò sotto il tendone di un negozio e tirò fuori il cellulare rubato. Emise un sospiro di sollievo: aveva preso di mira quella donna d’affari per una ragione, e il suo istinto non si era sbagliato. Aveva Skype installato sul cellulare e un account collegato a un numero americano.

Aprì il browser internet del telefono, cercò il numero di Pap’s Deli nel Bronx e chiamò.

Una giovane voce maschile rispose in fretta. “Pap’s, come posso aiutarvi?”

“Ronnie?” Uno dei suoi studenti dell’anno precedente lavorava part time nella rosticceria che preferiva. “Sono il professor Lawson.”

“Ehi, prof!” rispose allegramente il giovane uomo. “Come va? Vuole fare un ordine d’asporto?”

“No. Sì… più o meno. Ascolta, ho bisogno di un enorme favore, Ronnie.” Pap’s Deli era a soli sei isolati da casa sua. Quando era bel tempo, andava a piedi per prendere i panini. “Hai Skype sul tuo cellulare?”

“Sì?” rispose Ronnie, con un tono confuso nella voce.

“Bene. Ecco quello che mi serve che tu faccia. Scriviti questo numero…” Disse al ragazzo di correre a casa sua, vedere chi ci fosse, se c’era qualcuno, e richiamare il numero americano su quel telefono.

“Professore, è nei guai?”

“No, Ronnie, va tutto bene,” mentì. “Ho perso il mio telefono e una donna gentile mi sta lasciando usare il suo per far sapere alle ragazze che sto bene. Ma ho solo qualche minuto. Quindi se potessi…”

“Non dica altro, prof. Felice di aiutarla. La richiamo tra qualche minuto.” Ronnie riappese.

Mentre aspettava, Reid camminò avanti e indietro sotto il tendone, controllando il telefono ogni manciata di secondi per non perdere la chiamata. Gli sembrò che fosse passata un’ora prima che suonasse di nuovo, anche se in realtà si trattò solo di sei minuti.

“Pronto?” rispose alla chiamata su Skype al primo squillo. “Ronnie?”

“Reid, sei tu?” Un’agitata voce femminile.

“Linda!” disse senza fiato lui. “Sono così felice che tu sia lì. Ascolta, devo sapere…”

“Reid, che cosa è successo? Dove sei?” volle sapere la donna.

“Le ragazze, sono a…”

“Che cosa è successo?“ lo interruppe Linda. “Le ragazze si sono svegliate questa mattina, sono andate giù di testa perché eri sparito, quindi mi hanno chiamata e io mi sono precipitata…”

“Linda, ti prego,” cercò di intervenire, “dove sono?”

Lei continuò a parlargli sopra, chiaramente turbata. Linda aveva molte buone qualità, ma la lucidità nei momenti di crisi non era fra di esse. “Maya ha detto che a volte vai a fare delle passeggiate al mattino, ma sia la porta davanti che quella sul retro erano spalancate, e lei voleva chiamare la polizia perché non lasci mai il cellulare a casa, e ora arriva questo ragazzo della rosticceria e mi dà il suo telefono…?”

“Linda!” sibilò seccamente Reid. Due uomini anziani che passavano di lì sobbalzarono al suo scoppio. “Dove sono le ragazze?”

“Sono qui,” ansimò la donna. “Sono entrambe qui, a casa insieme a me.”

“Sono al sicuro?”

“Sì, certo. Reid, che cosa sta succedendo?”

“Hai chiamato la polizia?”

“Non ancora, no… alla televisione dicono che bisogna aspettare ventiquattro ore per poter segnalare qualcuno come disperso… Sei finito nei guai? Da dove mi stai chiamando? Che account è questo?”

“Non te lo posso dire. Ascoltami e basta. Di’ alle ragazze di preparare una valigia e portale in albergo, ma non in uno vicino, esci dalla città. Magari nel Jersey…”

“Reid, cosa?”

“Il mio portafoglio è sulla scrivania dell’ufficio. Non usare direttamente la carta di credito. Prendi prima del denaro contante da tutte le carte che ci sono e usalo per pagare l’albergo. Non dare una data per il check out.”

“Reid! Non ho intenzione di fare niente fino a quando non mi dici che cosa… aspetta un secondo.” La voce di Linda si fece soffocata e distante. “Sì, è lui. Sta bene. Almeno credo. Aspetta, Maya!”

“Papà? Papà, sei tu?” Una nuova voce a telefono. “Che cosa è successo? Dove sei?”

“Maya! Io, uh, ho dovuto sbrigare una faccenda, è stata una cosa estremamente all’ultimo minuto. Non ho voluto svegliarti….”

“Mi stai prendendo in giro?” La sua voce era stridula, agitata e preoccupata allo stesso tempo. “Non sono stupida, papà. Dimmi la verità.“

Lui sospirò. “Hai ragione. Mi dispiace. Non posso dirti dove sono, Maya, e non dovrei rimanere a telefono tanto a lungo. Solo, fai quello che dice tua zia, okay? Dovrete stare fuori di casa per un po’. Non andate a scuola. Non girate da sole. Non parlate di me a telefono o per computer. Hai capito?”

“No, non capisco! Hai dei problemi? Dovremmo chiamare la polizia?”

“No, non farlo,” disse lui. “Non ancora. Dammi solo un po’ di tempo per sistemare questa faccenda.”

Lei rimase in silenzio per un lungo momento. Poi disse: “Promettimi che stai bene.”

Reid sussultГІ.

“Papà?”

“Sì,” rispose forzatamente. “Sto bene. Ti prego, fai quello che ti ho chiesto e vai con la zia Linda. Voglio bene a entrambe, di’ a Sara che te l’ho detto, e abbracciala per me. Vi contatterò non appena potrò.”

“Aspetta, aspetta,” lo fermò Maya. “Come farai a contattarci se non saprai dove siamo andate?”

Ci rifletté per un istante. Non poteva chiedere a Ronnie di compromettersi più di così. Non poteva chiamare direttamente le ragazze. E non poteva rischiare di sapere dove fossero, perché avrebbero potute essere usate come merce di scambio contro di lui…

“Creerò un finto account,” propose Maya, “sotto un altro nome. Tu sai quale è. Io ci entrerò solo dal computer dell’albergo. Se vuoi contattarci, manda un messaggio.”

Reid capì al volo. Fu colto da un’ondata di orgoglio; era così intelligente, e molto più lucida sotto pressione di quanto avrebbe osato sperare.

“Papà?”

“Sì,” disse lui. “Va bene. Prenditi cura di tua sorella. Devo andare…”

“Anche io ti voglio bene,” rispose Maya.

Reid chiuse la chiamata. Poi tirò su con il naso. Eccolo di nuovo, l’istinto bruciante di correre a casa da loro, di tenerle al sicuro, di mettere in valigia tutto quello che potevano e andarsene, via lontano…

Non poteva farlo. Di qualunque cosa si trattasse, chiunque fosse che gli stava dando la caccia, lo avevano trovato una volta. Era stata una fortuna che non volessero anche le sue figlie. Forse non sapevano di loro. La prossima volta, se ci fosse stata, forse non avrebbe avuto tanta fortuna.

Reid aprì il telefono, ne entrasse la carta SIM e la spezzò in due. Lasciò cadere i pezzi in un tombino. Mentre si incamminava in strada, lasciò la batteria in un cestino del pattume, e le due metà del telefono in altri cestini.

Sapeva che era genericamente diretto verso Rue de Stalingrad, anche se non aveva idea di che cosa avrebbe fatto una volta che ci fosse arrivato. Il suo cervello gridava di cambiare direzione, di andare ovunque tranne che lì. Ma il sangue freddo che pervadeva il suo subconscio lo spinse ad avanzare.

I suoi rapitori gli avevano chiesto che cosa sapeva dei loro �piani’. I posti di cui gli avevano domandato, Zagreb e Madrid e Teharan, dovevano essere collegati, ed erano chiaramente legati anche agli uomini che lo avevano catturato. Qualunque cosa fossero quelle visioni—ancora si rifiutava di ammettere che fossero altro—c’era in esse la conoscenza di qualcosa che era già successo o che stava per accadere. Una conoscenza che non aveva saputo di possedere. Più ci pensava, più sentiva una certa urgenza sospingerlo dal fondo della sua mente.

No, era piГ№ di quello. Era un obbligo.

A quanto pareva i suoi rapitori erano stati disposti a ucciderlo per quello che sapeva. E lui aveva la sensazione che se non avesse scoperto di che cosa si trattava e che cosa avrebbe dovuto sapere, molta piГ№ gente sarebbe morta.

“Monsieur.” Reid fu strappato dai suoi pensieri da una donna in carne con uno scialle, che gli toccò gentilmente il braccio. “Sta sanguinando,” disse lei in inglese, e si indicò il sopracciglio.

“Oh. Merci.” Lui si portò due dita alla fronte. Un piccolo taglietto gli aveva impregnato la benda e una goccia di sangue gli stava colando lungo il viso. “Devo trovare una farmacia,” borbottò ad alta voce.

Rimase senza fiato quando fu colpito da un pensiero: c’era una farmacia a due isolati di distanza. Non c’era mai entrato, secondi i ricordi della sua memoria infida, ma semplicemente lo sapeva, con la stessa facilità con cui conosceva il percorso per arrivare al Pap’s Deli.

Gli corse un brivido dalla base della spina dorsale fino al collo. Le altre visioni erano state viscerali, e si erano manifestate tutte in seguito a qualche stimolo esterno, come una visione, suoni e persino odori. Quella volta non c’era stata nessuna visione. Era semplicemente un ricordo, proprio come aveva saputo dove andare davanti a ogni cartello stradale. Lo stesso modo in cui sapeva come caricare una Beretta.

Prese una decisione prima che il semaforo diventasse verde. Sarebbe andato a quell’incontro e avrebbe ottenuto qualsiasi informazione fosse stato possibile. Poi avrebbe deciso cosa farci, se fare rapporto alle autorità, e scagionarsi riguardo alla morte dei quattro uomini nello scantinato. Lasciare che la polizia facesse il suo mestiere mentre lui tornava a casa dalle sue figlie.

In farmacia, comprГІ un tubetto di supercolla, una scatola di cerotti a farfalla, dei tamponi di cotone e un fondotinta del colore del suo incarnato. PortГІ i suoi acquisti in bagno e chiuse la porta.

Si tolse le bende che si era messo goffamente all’appartamento e si lavò il sangue incrostato dalle ferite. Sui tagli più piccoli applicò i cerotti a farfalla. Su quelli più profondi, che normalmente avrebbero richiesto dei punti, strinse insieme la pelle e vi depositò una goccia di supercolla, sibilando tra i denti per tutto il tempo. Poi trattenne il fiato per circa trenta secondi. La colla bruciava, ma man mano che si asciugava smise di infastidirlo. Alla fine si passò il fondotinta sul volto, in particolare sulle opere dei suoi sadici ex rapitori. Non era possibile riuscire a mascherare l’occhio gonfio e la mascella livida, ma almeno così meno gente lo avrebbe fissato per la strada.

L’intero procedimento impiegò mezz’ora, e due volte in quell’arco di tempo dei clienti gli bussarono alla porta (la seconda, una donna aveva gridato in francese che il figlio stava per scoppiare). Entrambe le volte, Reid aveva gridato: “Occupé!”

Alla fine, quando ebbe concluso, si riguardò allo specchio. Era tutt’altro che perfetto, ma almeno non sembrava che fosse stato brutalizzato in una sala delle torture sotterranea. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a scegliere un fondotinta più scuro, qualcosa che lo avrebbe fatto sembrare straniero. La persona con cui aveva parlato sapeva con chi avrebbe dovuto incontrarsi? Avrebbe riconosciuto chi era, o meglio, chi pensavano che lui fosse? I tre uomini che erano andati a casa sua non erano sembrati molto sicuri, lo avevano persino confrontato con una fotografia.

“Che cosa sto facendo?” si chiese. Ti stai preparando per un incontro con un pericoloso criminale che probabilmente è un noto terrorista, disse la voce nella sua testa, e non la nuova coscienza invadente, ma la sua, quella di Reid Lawson. Era il suo stesso buon senso, che si prendeva gioco di lui.

Poi la personalitГ  pacata e sicura di sГ©, quella appena sotto la superficie, parlГІ. AndrГ  tutto bene, gli disse. Non ГЁ niente che tu non abbia giГ  fatto. Istintivamente portГІ la mano al calcio della Beretta infilata dietro ai suoi pantaloni, nascosta dalla nuova giacca. Sai come comportarti.

Prima di uscire dalla farmacia, comprò qualche altro oggetto: un orologio economico, una bottiglia d’acqua e due tavolette di cioccolato. Fuori sul marciapiede, divorò entrambe le barrette. Non era certo di quanto sangue avesse perso e voleva tenere alti i livelli di zucchero. Scolò l’intera bottiglietta d’acqua e poi chiese l’ora a un passante. Sistemò l’orologio e se lo infilò al polso.

Erano le sei e mezza. Aveva tutto il tempo per arrivare al luogo d’incontro in anticipo e prepararsi.


*

Si era quasi fatto buio quando raggiunse l’indirizzo che gli era stato dato per telefono. Il tramonto su Parigi lanciava lunghe ombre sui viali. Rue de Stalingrad 187 corrispondeva a un bar nel decimo arrondissement chiamato Féline, un postaccio con le finestre dipinte di nero e la facciata malmessa. Era in una strada altrimenti popolata da studi d’arte, ristoranti indiani e bar bohémien.

Reid si fermГІ con una mano sulla porta. Una volta entrato non sarebbe piГ№ potuto tornare indietro. Ancora poteva andarsene. No, decise, invece non poteva. Dove sarebbe andato? A casa, per farsi ritrovare di nuovo? E a vivere con quelle strane visioni nella testa?

EntrГІ.

Le pareti del bar erano dipinte di nero e coperte di poster anni ’50 con donne dal volto severo, portasigarette e silhouette. Era troppo presto, o forse troppo tardi, perché il posto fosse affollato. I pochi clienti all’interno parlavano a bassa voce, curvi con aria protettiva sui loro drink. Una melanconica musica blues suonava dolcemente da uno stereo dietro il bancone del bar.

Reid controllГІ tutto il posto, da destra a sinistra e poi da capo. Nessuno guardГІ verso di lui, e di certo nessuno somigliava ai tipi che lo avevano rapito. Si accomodГІ a un tavolino sul fondo e si sedette guardando verso la porta. OrdinГІ un caffГЁ, anche se per lo piГ№ lo lasciГІ fumare davanti a sГ©.

Un vecchio uomo curvo scese dal suo sgabello e si avviò zoppicando verso i bagni. Reid si scoprì ipnotizzato dal suo movimento e studiò l’uomo. Sulla sessantina. Displasia dell’anca. Dita ingiallite, respiro pesante: un fumatore di sigari. Senza spostare la testa il suo sguardo corse dall’altro lato del bar, dove due uomini dall’aria burbera e in tute da lavoro stavano avendo una conversazione sussurrata ma concitata sullo sport. Operai. Quello sulla sinistra non dorme abbastanza, probabilmente ha dei figli piccoli. L’uomo sulla destra è stato in una rissa di recente, o almeno ha dato un pugno, dato che le sue nocche sono ferite. Senza pensare, si ritrovò a esaminare gli orli dei loro pantaloni, le loro maniche, il modo in cui appoggiavano i gomiti sul tavolo. Qualcuno con una pistola cercherebbe di proteggerla, di nasconderla, anche inconsciamente.

Reid scosse la testa. Stava diventando paranoico, e quei pensieri persistenti ed estranei non lo stavano aiutando. Poi si ricordò lo strano avvenimento della farmacia, come si fosse ricordato di un posto solo dopo aver detto ad alta voce che gliene serviva uno. Lo studioso dentro di lui intervenne. Forse c’è qualcosa che puoi imparare da questa consapevolezza. Forse invece di combatterla, dovresti provare ad aprirti a essa.

La cameriera era una giovane donna dall’aria stanca con una gran massa di capelli scuri e arruffati. “Stylo?” le chiese quando gli passò vicino. “Ou crayon?” Penna o matita? Lei infilò una mano in mezzo ai capelli e ne estrasse una penna. “Merci.”

Spianò un tovagliolo da cocktail e ci appoggiò sopra la punta della penna. Quella non era una nuova abilità di origine sconosciuta, bensì una tecnica del professor Lawson, una che aveva usato molte volte in passato per rafforzare la memoria.

Ripensò alla conversazione, se così poteva definirla, con i tre rapitori arabi. Cercò di non pensare ai loro occhi morti, al sangue per terra, o alla vaschetta di strumenti affilati per tagliargli di dosso qualsiasi verità credessero che avesse. Invece si concentrò sui dettagli verbali e scrisse il primo nome che gli tornò in mente.

Poi lo borbottò ad alta voce. “Sceicco Mustafar.”

Una prigione segreta in Marocco. Un uomo che ha passato tutta la sua vita in mezzo alle ricchezze e al potere, calpestando i meno fortunati di lui e schiacciandoli sotto le sue scarpe, ora ГЁ terrorizzato perchГ© sa che potrebbero seppellirlo fino al collo nella sabbia e nessuno avrebbe mai ritrovato le sue ossa.

“Vi ho detto tutto quello che so!” insiste.

Come no. “Le mie fonti dicono altrimenti. Dicono che potresti sapere molto di più, ma che forse hai paura delle persone sbagliate. Ecco cosa ti dico, sceicco… il mio amico nella stanza qui vicina?  Si sta innervosendo. Vedi, lui ha questo martello… è una cosetta, davvero, un martello da roccia, come quello che userebbe un geologo? Ma fa meraviglie sulle ossa più piccole, sulle nocche…”

“Lo giuro!” Lo sceicco si stringe le mani ansioso. Lo riconosci come un segnale. “Ci sono state altre conversazioni sui piani, ma erano in tedesco, in russo… io non le ho capite!”

“Lo sai, sceicco, un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua.”

Reid tornò di colpo al fetido baretto. Si sentiva la gola secca. Il ricordo era stato intenso, vivido e lucido come tutti gli altri. Ed era stata la sua voce a parlare, a minacciare con facilità, pronunciando cose che non si sarebbe mai sognato di dire a un’altra persona.

Piani. Lo sceicco aveva definitivamente detto qualcosa su dei piani. Qualsiasi cosa tremenda stesse sospingendo il suo inconscio, aveva la netta sensazione che ancora non fosse successa.

Prese un sorso del caffè ormai tiepido per calmare i nervi. “Okay,” disse a se stesso. “Okay.” Durante l’interrogatorio nello scantinato, gli avevano chiesto le identità di altri agenti attivi, e tre nomi gli erano lampeggiati nella mente. Ne scrisse uno, e poi lo lesse ad alta voce. “Morris.”

Un aeroporto privato a Zagreb. Morris sta correndo di fianco a te. Entrambi avete le pistole in pugno, con la canna puntata verso il basso. Non potete lasciare che i due iraniani raggiungano l’aereo. Morris prende la mira tra una falcata e un’altra e spara due volte. Un colpo arriva a segno a un polpaccio e il primo uomo cade. Tu ti avvicini all’altro, abbattendolo brutalmente al suolo…

Un altro nome. “Reidigger.”

Un sorriso giovanile, capelli pettinati accuratamente. Un po’ di pancetta. Il peso non gli sarebbe stato male addosso con qualche centimetro di più d’altezza. Il bersaglio di molti scherzi, ma li sopportava con pazienza.

Il Ritz a Madrid. Reidigger copre la hall mentre tu abbatti la porta a calci e prendi il terrorista di sorpresa. L’uomo cerca di prendere la pistola sul comò, ma tu sei più veloce. Gli spezzi il polso… Più tardi Reidigger ti dirà che ha sentito il rumore da fuori nel corridoio. Gli ha dato la nausea. Tutti ridono.

Il caffè ormai era freddo, ma Reid quasi non lo notò. Gli tremavano le dita. Non c’era alcun dubbio: qualsiasi cosa gli stesse succedendo, quelli erano dei ricordi… i suoi ricordi. O quelli di qualcuno. I rapitori, gli avevano tagliato qualcosa dal collo e lo avevano chiamato un soppressore dalla memoria. Non poteva essere vero; quello non era lui. Era qualcun altro. Aveva i ricordi di qualcun altro mescolati ai suoi.

Reid appoggiò di nuovo la punta della penna al tovagliolo e scrisse l’altro nome. Lo pronunciò ad alta voce: “Johansson.” Una forma gli apparve nella mente. Lunghi capelli biondi, lisci e lucidi. Zigomi rotondi e alti. Labbra piene. Occhi grigi, del colore dell’ardesia. Una visione lampeggiò…

Milano. Notte. Un albergo. Vino. Maria è seduta sul letto con le gambe incrociate sotto di sé. I primi tre bottoni della camicetta sono aperti. I capelli sono spettinati. Non avevi mai notato quanto fossero lunghe le sue ciglia. Due ore prima l’hai guardata uccidere due uomini in una sparatoria, e ora bevete Sangiovese e mangiate Pecorino toscano. Le vostre ginocchia quasi si toccano. Il suo sguardo incontra il tuo. Nessuno di voi due parla. Lo vedi nei suoi occhi, ma lei sa che non puoi farlo. Ti chiede di Kate…

Reid sussultò sentendo montare un gran mal di testa, che gli si allargò nel cranio come una nube temporalesca. Allo stesso tempo, la visione si sfocò e svanì. Strinse gli occhi e si premette le tempie per un minuto intero prima che il mal di testa diminuisse.

Che diavolo ГЁ stato quello?

Per qualche motivo sembrava che il ricordo della donna, Johansson, gli avesse provocato una breve emicrania. Ancora più disturbante, tuttavia, fu la strana sensazione che lo colse mentre il mal di testa gli passava. Era come… desiderio. No, era più di quello, sembrava passione, rinforzata dall’eccitazione e persino dal pericolo.

Non riuscì a evitare di chiedersi chi fosse la donna, ma poi si riscosse. Non voleva provocarsi un altro mal di testa. Invece appoggiò di nuovo la penna sul tovagliolo, per scrivere l’ultimo nome: Zero. Era in quella maniera che l’aveva chiamato l’interrogatore iraniano. Ma prima che potesse scriverlo o recitarlo, provò una sensazione bizzarra. Gli si rizzarono tutti i peli del collo.

Qualcuno lo stava guardando.

Quando alzò lo sguardo, vide un uomo in piedi all’ingresso del Féline, gli occhi puntati su Reid come un falco che stesse dando la caccia a un topo. Gli si gelò il sangue. Lo stava osservando.

Era quello l’uomo che doveva incontrare, ne era certo. Lo aveva riconosciuto? Gli uomini arabi non sembravano averlo fatto. Che quello sconosciuto stesse aspettando qualcun altro?

Appoggiò la penna. Lentamente e senza dare nell’occhio, accartocciò il tovagliolo e lo lasciò cadere nella tazzina di caffè mezza piena.

L’uomo annuì una volta. Lui annuì in risposta.

Poi lo sconosciuto portГІ una mano dietro la schiena, per prendere qualcosa infilato nel retro dei pantaloni.




CAPITOLO CINQUE


Reid si alzò con tanta forza che la sedia quasi cadde all’indietro. Immediatamente la mano gli andò al calcio ruvido della Beretta, riscaldato dalla sua schiena. La sua mente gli stava gridando freneticamente: Questo è un luogo pubblico. Ci sono delle persone qui. Non ho mai usato una pistola.

Prima che Reid potesse estrarre l’arma, lo sconosciuto prese un portafoglio dalla tasca dietro i pantaloni. Gli sorrise, apparentemente divertito dal suo nervosismo. Nessun altro nel bar pareva averlo notato, a parte la cameriera con i capelli arruffati, che si era limitata a sollevare un sopracciglio.

Lo sconosciuto si avvicinГІ al bancone, allungГІ una banconota e borbottГІ qualcosa al barista. Poi si diresse al tavolo di Reid. Rimase fermo in piedi dietro la sedia libera per un lungo momento, un ghigno sulle labbra.

Era giovane, doveva aver massimo trent’anni, con capelli tagliati corti e l’accenno di una barba. Era magro e la sua faccia era scavata, tanto che gli zigomi alti e il mento sporgente lo facevano sembrare una caricatura. Il dettaglio più disarmante erano gli occhiali dalla montatura nera che portava, che davano l’impressione che Buddy Holly fosse cresciuto negli anni ’80 e avesse scoperto la cocaina.

Era destrorso, si vedeva; teneva il gomito sinistro vicino al corpo, che probabilmente significava che aveva una pistola nella fondina da spalla che gli pendeva sotto l’ascella, per poterla estrarre con la destra se ne avesse avuto bisogno. Con la mano sinistra teneva ferma la giacca di velluto nero per nascondere l’arma.

“Mogu sjediti?” chiese alla fine l’uomo.

Mogu…? Reid non lo capì subito, come era stato invece per l’arabo e il francese. Non era russo, ma ci andava tanto vicino da poter intuire il significato aiutandosi con il contesto. L’uomo stava chiedendo se poteva sedersi.

Gli indicò la sedia libera davanti a sé e l’uomo si accomodò, tenendo sempre il gomito sinistro attaccato al corpo.

Non appena fu seduto, la cameriera gli portò un bicchiere di birra scura e l’appoggiò davanti a lui. “Merci,” disse. Sorrise a Reid. “Non parli il serbo?”

Reid scosse la testa. “No.” Serbo? Aveva dato per scontato che l’uomo con cui si sarebbe incontrato sarebbe stato arabo, come i suoi rapitori e l’interrogatore.

“In inglese, allora? Ou francais?”

“A tua scelta.” Reid era sorpreso da quanto sembrasse calma e rilassata la sua voce. Il cuore gli stava per esplodere dal petto per la paura e… e se doveva essere sincero, anche per un tocco di eccitazione nervosa.

Il sorriso dell’uomo serbo si allargò. “Mi piace questo posto. È buio. È tranquillo. È l’unico bar che conosco in questo arrondissement che serve la Franziskaner. È la mia preferita.” Prese una lunga sorsata dal bicchiere, con gli occhi chiusi, e gli sfuggì un grugnito di piacere. “Que deliciosa.” Aprì gli occhi e aggiunse: “Non sei quello che mi aspettavo.”

Un’ondata di panico si alzò nel ventre di Reid. Lo sa, gli gridò la sua mente. Lo sa che non sei tu quello con cui si sarebbe dovuto incontrare, e ha una pistola.

Rilassati, disse l’altra voce, quella nuova. Sai quello che devi fare.

Reid deglutì, ma in qualche modo riuscì a mantenere un contegno sdegnoso. “Neanche tu,” rispose.

Il serbo ridacchiò. “Mi sembra giusto. Ma siamo tanti, sì? E tu… tu sei americano?”

“Espatriato,” replicò Reid.

“Non lo siamo tutti?” Un’altra risatina. “Prima di te ho incontrato solo un altro americano nel nostro, uhm… quale è la parola… conglomerato? Sì. Quindi per me non è così strano.” L’uomo gli fece un occhiolino.

Reid si tese. Non riusciva a capire se era una battuta o meno. E se avesse capito che era l’uomo sbagliato e lo stava solo prendendo in giro o guadagnando tempo? Si appoggiò le mani in grembo per nascondere le dita tremanti.

“Mi puoi chiamare Yuri. Come posso chiamare te?”

“Ben.” Era il primo nome che gli era venuto in mente, quello di un mentore dei tempi in cui era assistente.

“Ben. Come sei arrivato a lavorare per gli iraniani?”

“Con,” lo corresse Reid. Strinse gli occhi per un maggiore effetto. “Io lavoro con loro.”

L’uomo, Yuri, prese un altro sorso della sua birra. “Certo. Con. Come è successo? Nonostante i nostri interessi comuni, tendono a essere un… ah, un gruppo chiuso.”

“Sono affidabile,” rispose Reid senza battere ciglio. Non aveva idea da dove venissero quelle parole, né la convinzione con cui le pronunciava. Le disse come se le avesse provate e riprovate.

“E dove è Amad?” chiese casualmente Yuri.

“Non è potuto venire,” rispose calmo Reid. “Ti manda i suoi saluti.”

“Va bene, Ben. Hai detto che la missione ha avuto successo.”

“Sì.”

Yuri si tese in avanti, socchiudendo gli occhi. Reid sentiva l’odore del malto nel suo fiato. “Ho bisogno di sentirtelo dire, Ben. Dimmi, l’uomo della CIA è morto?”

Reid si paralizzò per un istante. CIA? Cioè, la CIA? All’improvviso tutti i discorsi su agenti in campo e le visioni di terroristi catturati in aeroporti e in albergo acquistarono un senso, anche se la situazione generale rimaneva nebulosa. Poi si riscosse e sperò di non aver lasciato trasparire niente che lo avesse tradito.

Anche lui si sporse in avanti e disse lentamente: “Sì, Yuri, l’uomo della CIA è morto.”

Yuri si appoggiò allo schienale della sedia con calma e sorrise di nuovo. “Bene.” Sollevò il bicchiere. “E le informazioni? Le hai?”

“Ci ha detto tutto quello che sapeva,” gli confermò Reid. Non poté fare a meno di notare che le sua dita non tremavano più sotto il tavolo. Era come se qualcun altro fosse in controllo, e Reid Lawson avesse ceduto le redini del suo stesso cervello. Decise di non opporsi.

“L’ubicazione di Mustafar?” chiese Yuri. “E tutto quello che gli ha detto?”

Reid annuì.

Yuri batté le palpebre ripetutamente, in attesa. “Sto aspettando.”

Un’idea si fece largo nella mente di Reid, mentre metteva insieme le poche conoscenze che aveva. La CIA era coinvolta. C’era un qualche piano che avrebbe potuto uccidere molte persone. Lo sceicco lo sapeva, e aveva detto a loro, a lui, tutto quanto. Quegli uomini volevano sapere che cosa aveva detto lo sceicco. Ecco a cosa era interessato Yuri. Qualsiasi cosa fosse, doveva essere una grossa faccenda e Reid ci era finito in mezzo… anche se aveva la sensazione che non fosse la prima volta che capitava.

Non disse nulla per un lungo momento, abbastanza lungo perché il sorriso di Yuri evaporasse in una smorfia a denti stretti. “Io non ti conosco,” disse poi Reid. “Non so chi rappresenti. Ti aspetti che ti dica tutto quello che so e poi me ne vada via, fidandomi che vada tutto per il verso giusto?”

“Sì,” rispose Yuri. “È esattamente quello che mi aspetto, e precisamente la ragione di questo incontro.”

Reid scosse la testa. “No. Vedi, Yuri, sto pensando che questa informazione è troppo importante per giocare al telefono senza fili e sperare che arrivi alle orecchie giuste e nel modo giusto. Inoltre per quel che mi riguarda, c’è solo un posto in cui esiste, vale a dire proprio qui.” Si toccò la tempia sinistra. Era vero, le informazioni che stavano cercando erano, presumibilmente da qualche parte in fondo alla sua mente, in attesa di essere sbloccate. “Sto anche pensando,” continuò, “che ora che ho questa informazione, i nostri piani cambieranno. Mi sono stancato di fare il messaggero. Voglio entrarci. Voglio un vero ruolo.”

Yuri si limitò a fissarlo. Poi scoppiò in una risata secca e rumorosa, colpendo allo stesso tempo il tavolo con tanta forza da far sobbalzare gli altri clienti. “Tu!” esclamò, agitando un dito. “Sarai anche un espatriato, ma hai ancora l’ambizione americana!” Rise di nuovo, un verso che ricordava da vicino quello di un asino. “Che cosa è che vuoi sapere, Ben?”

“Iniziamo con chi rappresenti tu in questa storia?”

“Come fai a sapere che rappresento qualcuno? Per quel che ne sai tu, potrei essere io il capo. La mente dietro il piano criminale!” Sollevò entrambe le mani in un gesto plateale e rise di nuovo.

Reid sogghignò. “Non credo. Penso che tu sia nella mia stessa situazione, un messaggero, portatore di segreti, che si incontra per scambiare notizie in bar di quart’ordine.” Tattica di interrogatorio: mettiti al loro stesso livello. Yuri era chiaramente un poliglotta e non sembrava avere lo stesso atteggiamento temprato dei suoi rapitori. Ma anche se era di basso livello, sapeva più di Reid. “Che ne dici di fare un patto? Tu mi dici quello che sai, e io di dico quello che so.” Abbassò la voce in un sussurro. “E credimi, le mie informazioni ti interessano.”

Yuri si accarezzò il mento ruvido pensieroso. “Mi piaci, Ben. Che è, come si dice, uhm, un contrasto, perché di solito gli americani mi danno la nausea.” Sorrise. “Purtroppo per te, non posso dirti quello che non so.”

“Allora indicami chi può farlo.” Le parole uscirono dalla sua bocca senza neanche passare per il cervello, direttamente dalla gola. La parte più logica di Reid (o più appropriatamente, la parte Lawson di lui) gridò in protesta. Che cosa stai facendo?! Fatti dire quello che sa ed esci da qui!

“Vorresti venire a fare un giro in auto con me?” Gli occhi di Yuri lampeggiarono. “Ti porterò a vedere il mio capo. Lì potrai dirgli quello che sai.”

Reid esitò. Sapeva che non avrebbe dovuto. Sapeva che non voleva farlo. Ma c’era quel bizzarro senso di obbligo, e quella volontà ferrea in fondo alla sua mente che continuava a dirgli: Rilassati. Aveva una pistola. Aveva le competenze. Era arrivato fino a quel punto e a giudicare da quello che aveva imparato, si trattava di un affare più grosso di qualche uomo iraniano in uno scantinato di Parigi. C’era un piano, il coinvolgimento della CIA, ed era ovvio che lo scopo finale era la morte di molte persone.

Annuì seccamente, a denti stretti.

“Fantastico,” Yuri scolò il suo bicchiere e si alzò, continuando a tenere il gomito sinistro contro il corpo. “Au revoir.” Fece un cenno di saluto al barista. Poi il serbo lo guidò fino al retro del Féline, attraverso una piccola cucina lurida, e fuori da una porta d’acciaio che dava su un vicolo tutto in ciottoli.

Reid lo seguì nella notte, sorpreso che fuori si fosse fatto tanto buio mentre era nel bar. All’imbocco del vicolo c’era un SUV nero, in sosta, con i finestrini scuri quanto la sua vernice. La porta sul retro si aprì prima ancora che Yuri lo raggiungesse, e ne uscirono due scagnozzi. Reid non avrebbe saputo come altro definirli; entrambi avevano le spalle larghe, un’aria imponente e non facevano nulla per nascondere le pistole automatiche TEC-9 che pendevano dalle fondine sotto le loro ascelle.

“Calmatevi, amici miei,” intervenne Yuri. “Questo è Ben. Lo portiamo a vedere Otets.”

Otets. In russo il “padre”. O, a livello più tecnico, il “creatore”.

“Vieni,” gli disse amichevolmente Yuri. Batté una mano sulla spalla di Reid. “Sarà un viaggio piacevole. Beviamo un po’ di champagne. Vieni.”

Le gambe di Reid non volevano funzionare. Era pericoloso, troppo pericoloso. Se fosse salito in auto con quegli uomini e loro avessero scoperto chi era, o anche che non era chi aveva detto di essere, sarebbe stato un uomo morto. Le sue figlie sarebbero rimaste orfane, e probabilmente non avrebbero mai saputo che ne era stato di lui.

Ma che altra scelta aveva? Non poteva dire che aveva cambiato idea all’improvviso, sarebbe stato sospetto. Aveva già superato il punto di non ritorno seguendo Yuri fino a lì. E se avesse saputo mantenere la finzione abbastanza a lungo, avrebbe trovato la fonte e magari anche scoperto che cosa stava succedendo nella sua stessa testa.

Fece un passo verso il SUV.

“Ah! Un momento, por favor.” Yuri agitò un dito verso la sua muscolosa scorta. Uno dei due gorilla costrinse Reid a sollevare le braccia sui fianchi, mentre l’altro lo perquisiva. Prima trovò la Beretta, infilata dietro i pantaloni. Poi infilò due dita nelle sue tasche e ne estrasse la mazzetta di euro e il telefono usa e getta, per tenderli verso Yuri.

“Questi puoi tenerli.” Il serbo gli restituì il denaro. “Questi invece, li teniamo noi. Sicurezza. Tu capisci.” Yuri fece svanire cellulare e pistola in una tasca interna della giacca di velluto, e per un brevissimo istante Reid vide il calcio marrone di un’arma.

“Capisco,” rispose. Così era disarmato e senza alcun modo di chiamare aiuto se gli fosse servito. Dovrei scappare, pensò. Iniziare a correre senza guardarmi indietro…

Uno dei due scagnozzi lo costrinse a chinare la testa e ad avanzare nel retro del SUV. Entrambi salirono dopo di lui e Yuri li seguì, chiudendosi la portiera alle spalle. Si sedette accanto a Reid, mentre i gorilla incurvati, praticamente spalla contro spalla, sedevano nei sedili custom rivolti verso di loro, proprio dietro l’autista. Un vetro tinto di nero li separava da sedili davanti dell’auto.

Uno dei due bussò sul vetro dell’autista con due nocche. “Otets,” disse bruscamente.

Un secco click segnalò la chiusura delle portiere, e con esso arrivò la realizzazione di quello che Reid aveva fatto. Era salito in auto con tre uomini armati, senza avere alcuna idea di dove stesse andando e ancora di meno chi fosse lui stesso. Ingannare Yuri non era stato particolarmente difficile, ma adesso lo stava portando dal capo…. Avrebbe capito che non era chi diceva di essere? Lottò contro la tentazione di scattare avanti, aprire la porta e balzare giù dall’auto. Non aveva vie di fuga, almeno non al momento. Avrebbe dovuto aspettare che arrivassero alla loro destinazione e sperare di uscirne tutto d’un pezzo.

Il SUV avanzГІ nelle strade di Parigi.




CAPITOLO SEI


Yuri, che era stato tanto chiacchierone e animato dentro il bar francese, fu stranamente silenzioso durante il viaggio in auto. Aprì un compartimento lungo il sedile e ne estrasse un libro consumato e con la copertina strappata: il Principe di Machiavelli. Il professore dentro Reid avrebbe voluto sbuffare ad alta voce.

I due scagnozzi seduti davanti a lui rimasero muti, con gli occhi fissi in avanti come se stessero cercando di trapanargli il cranio. Memorizzò rapidamente i loro lineamenti: l’uomo sulla sinistra era rasato, bianco, con scuri baffi a manubrio e occhietti piccoli e scintillanti. Aveva una TEC-9 sotto la spalla e una Glock 27 infilata in una fondina da caviglia. Una cicatrice pallida e frastagliata sopra il sopracciglio sinistro suggeriva un rattoppo grossolano (non troppo diverso da quella che avrebbe avuto Reid, una volta che fosse guarito dal suo intervento con la supercolla). La nazionalità dell’uomo era indistinguibile.

Il secondo scagnozzo era leggermente più scuro, con una barba folta e incolta e una grossa pancia. La spalla sinistra sembrava leggermente cadente, come se preferisse caricare il peso sul fianco opposto. Anche lui aveva una pistola automatica infilata sotto un braccio, ma nessun’altra arma che Reid riuscisse a vedere.

Tuttavia aveva notato il marchio sul suo collo. La pelle era rosata e raggrinzita, leggermente rialzata per la bruciatura. Era lo stesso marchio che aveva visto sul gigante arabo nello scantinato. Un qualche genere di glifo, ne era certo, ma non uno che riuscisse a riconoscere. Sembrava che l’uomo con i baffi non l’avesse, anche se la maggior parte del suo collo era nascosta dalla maglietta.

Neanche Yuri pareva avere il marchio, almeno non dove Reid potesse vederlo. Il colletto della giacca di velluto nero era piuttosto alto. Forse ГЁ uno status symbol, pensГІ. Qualcosa che deve essere guadagnato.

L’autista diresse il veicolo sull’A4, lasciandosi Parigi alle spalle e dirigendosi a nord-est verso Reims. Le finestre tinte rendevano la notte ancora più buia, una volta usciti dalla Città delle Luci, era difficile per Reid distinguere qualsiasi punto di riferimento. Dovette fare affidamento sui cartelli stradali per sapere dove erano diretti. Il panorama mutò da un luminoso ambiente urbano a una topografia bucolica e rilassata. L’autostrada seguiva le curve gentili del terreno e fattorie si alzavano da ogni lato.

Dopo un’ora di viaggio in assoluto silenzio, Reid si schiarì la gola. “Ci vuole ancora molto?” chiese.

Yuri si portò un dito alle labbra e poi sorrise. “Oui.”

Reid allargГІ le narici, ma non disse altro. Avrebbe dovuto chiedergli dove avevano intenzione di portarlo; per quel che ne sapeva erano diretti in Belgio.

La Route A4 divenne l’A34, che a sua volta sfociò nell’A304 man mano che salivano verso nord. Gli alberi che punteggiavano la campagna diventarono più grossi e fitti, enormi abeti presero il posto delle fattorie aperte racchiudendoli in una foresta. La pendenza della strada aumentò e le colline gentili si trasformarono in piccole montagne.

Conosceva quel posto. O meglio, conosceva la regione, e non per via delle visioni lampeggianti o delle sue memorie misteriose. Non era mai stato lì, ma sapeva dai suoi studi che avevano raggiunto le Ardenne, una zona montagnosa e ricca di foreste divisa tra la Francia nord-orientale, il Belgio meridionale e il Lussemburgo settentrionale. Era stato nelle Ardenne che l’esercito tedesco, nel 1944, aveva tentato di mandare le sue divisioni armate attraverso la foresta nel tentativo di catturare la città di Antwerp. Era stato ostacolato dalle forze americane e inglesi vicino al fiume Mosa. Il conflitto che ne era risultato era stato chiamato l’Offensiva delle Ardenne ed era stato l’ultimo importante attacco dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Per qualche motivo, nonostante la sua situazione fosse, o sarebbe potuta presto diventare, disastrosa, trovГІ una piccola misura di conforto nel pensare alla storia, alla sua vita passata e ai suoi studenti. Ma poi la sua mente tornГІ sulla possibilitГ  che le sue ragazze rimanessero da sole, spaventate e senza alcuna idea di dove fosse o in che guaio si fosse cacciato.

Ben presto, Reid vide un cartello che segnalava l’avvicinarsi del confine. Belgique, diceva il cartello, e sotto Belgien, België, Belgium. Meno di due miglia dopo, il SUV rallentò fino a fermarsi a una piccola cabina con una copertura di cemento. Un uomo in un pesante cappotto e un cappello di lana sbirciò verso il veicolo. I controlli alla frontiera tra Francia e Belgio erano tutt’altra cosa rispetto a quello a cui erano abituati gli americani. L’autista abbassò il finestrino e parlò all’uomo, ma le sue parole furono soffocate dal vetro e dai finestrini sul retro. Reid scrutò attraverso la vernice che oscurava i vetri e vide il braccio dell’autista tendersi per passare qualcosa all’agente di confine: una banconota. Una bustarella.

L’uomo con il cappello di lana li lasciò passare.

Solo qualche miglio lungo la N5, il SUV uscì dall’autostrada per prendere una stradina stretta che passava parallela alla via principale. Non c’erano cartelli d’uscita e la strada stessa era a malapena pavimentata: era una via d’accesso, probabilmente creata per i mezzi per il disboscamento. L’auto sobbalzò sopra i tagli profondi scavati nella terra. I due scagnozzi si rimbalzarono addosso davanti a Reid, ma continuarono a fissarlo impassibili.

Lui controllò l’economico orologio che aveva comprato in farmacia. Erano passate due ore e quarantasei minuti da quando si erano messi in viaggio. La notte prima era stato in America, poi si era risvegliato a Parigi, e ora era in Belgio. Rilassati, ripeté il suo subconscio. Non sono mete nuove per te. Fai solo attenzione e tieni la bocca chiusa.

Su entrambi i lati della strada sembrava esserci solo una densa boscaglia. Il SUV continuГІ, salendo lungo il fianco di una montagna e poi scendendo di nuovo. Nel frattempo Reid guardava fuori dal finestrino, fingendosi disinteressato ma in realtГ  alla ricerca di qualsiasi segno o cartello che gli dicesse dove erano, possibilmente qualcosa che avrebbe potuto riportare in seguito alle autoritГ , se ce ne fosse stato bisogno.

Davanti apparvero luci, anche se da quell’angolazione non riusciva a vederne la fonte. Il SUV rallentò di nuovo fino a fermarsi. Reid vide una recinzione nera di ferro battuto, ogni palo con una punta acuminata, che si estendeva per ogni lato svanendo nell’oscurità. Accanto alla loro auto c’era una piccola guardiola fatta di vetro e grossi mattoni, illuminata dall’interno da una luce fluorescente. Ne emerse un uomo. Indossava pantaloni eleganti e una giacca da marinaio, con il colletto alzato attorno al collo e una sciarpa grigia annodata attorno alla gola. Non fece alcun tentativo di nascondere il MP7 con silenziatore che gli pendeva da una cinghia sulla spalla destra. In effetti, mentre si avvicinava all’auto, strinse la pistola automatica, seppur senza alzarla.

Heckler & Koch, variante di produzione del MP7A1, disse la voce della testa di Reid. Silenziatore da sette virgola uno pollice. Mirino reflex. Caricatore da trenta colpi.

L’autista abbassò il finestrino e parlò con l’uomo per qualche secondo. Poi la guardia fece il giro del SUV e aprì la porta dal lato di Yuri. Si chinò e sbirciò nell’auto. Reid colse l’odore del whisky e fu colpito dalla ventata gelida che entrò con esso. L’uomo li guardò tutti, uno dopo l’altro, soffermandosi più a lungo su di lui.

“Kommunikator,” disse Yuri. “Chtoby uvidet’ nachal’nika.” Russo. Messaggero, per vedere il capo.

La guardia non disse nulla. Chiuse di nuovo la porta e tornГІ al suo posto, premendo un pulsante su una piccola console. Il cancello di ferro battuto ronzГІ mentre scivolava di lato, e il SUV entrГІ.

A Reid si strinse la gola mentre la gravità della situazione gli premeva addosso. Era andato all’incontro con l’intenzione di ottenere informazioni su qualsiasi cosa stesse capitando, non solo a lui, ma anche riguardo gli sceicchi, i piani e le città straniere. Era salito in auto con Yuri e due scagnozzi per trovare una fonte. Si era lasciato portare fuori dal paese e nel bel mezzo di una fitta foresta e ora erano dietro un’alta recinzione di ferro. Non aveva idea di come sarebbe potuto uscirne se le cose si fossero messe male.

Rilassati. Lo hai giГ  fatto prima.

No, non è vero! pensò disperatamente. Sono un professore del college di New York. Non so che cosa sto facendo. Perché ho fatto una cosa del genere? Le mie ragazze…

Lasciati andare. Saprai che cosa fare.

Reid fece un respiro profondo, ma non calmò i suoi nervi. Sbirciò fuori dal finestrino. Nell’oscurità, riusciva a malapena a distinguere l’ambiente circostante. Non c’erano alberi al di l del cancello, ma piuttosto file e file di robusti rampicanti, che si alzavano e si stringevano a pali di plastica alti fino alla vita… Era una vigna. Che fosse veramente un vigneto o fosse solo una facciata, non ne era sicuro, ma almeno era qualcosa di riconoscibile, che poteva essere visto da un elicottero o da un drone.

Bene. Questo sarГ  utile in seguito.

Se ci sarГ  un seguito.

Il SUV si mosse lentamente sulla strada sterrata per un altro miglio circa, prima che finisse il vigneto. Davanti a loro si alzava un autentico palazzo, praticamente un castello, costruito in pietra grigia con finestre ad arco ed edera su tutta la facciata a sud. Per un brevissimo momento Reid apprezzò la magnifica architettura; doveva avere almeno duecento anni, forse di più. Ma non si fermarono lì; invece l’auto oltrepassò il palazzo e andò oltre. Dopo un altro mezzo miglio, si fermarono in un piccolo parcheggio e l’autista spense il motore.

Erano arrivati. Dove fossero arrivati, Reid non ne aveva idea.

Gli scagnozzi uscirono per primi, poi fu il turno di Reid, seguito da Yuri. Il freddo gelido gli tolse il fiato. Strinse la mascella per impedire ai denti di battere. La sua grossa scorta parve non esserne minimamente turbata.

A circa quaranta metri da loro c’era una struttura larga e bassa, alta due piani ed estesa per l’equivalente di diversi appartamenti; non aveva finestre ed era fatta di lamiere d’acciaio dipinte di beige. Una specie di impianto, ragionò Reid, forse per la vinificazione. Ma ne dubitava.

Yuri gemette e stiracchiò le membra. Poi sorrise a Reid. “Ben, capisco che ormai siamo buoni amici, ma lo stesso…” Estrasse dalla tasca della giacca un pezzo di stoffa nero e stretto. “Devo insistere.”

Reid annuì, seccamente. Che altra scelta aveva? Si girò perché Yuri potesse legargli la benda sopra agli occhi. Una mano forte e grossa gli strinse un avambraccio, uno dei due scagnozzi, senza dubbio.

“Ora, dunque,” annunciò Yuri. “Andiamo da Otets.” La mano forte lo tirò in avanti e lo guidò mentre si incamminavano in direzione della struttura d’acciaio. Sentì un’altra spalla contro la propria sul lato opposto; i due scagnozzi lo avevano circondato.

Reid respirГІ profondamente attraverso il naso, facendo del suo meglio per rimanere calmo. Ascolta, gli disse la sua mente.

Sto ascoltando.

No, ascolta. Ascolta e lasciati andare.

Qualcuno bussò a una porta tre volte. Il suono era vuoto e profondo come quello emesso da una grancassa. Anche se non riusciva a vedere, Reid immaginò mentalmente Yuri che batteva con il pugno sulla pesante porta d’acciaio.

Ca-chunk. Un catenaccio scivolò di lato. Un whoosh, e la porta si aprì accompagnata da una ventata d’aria calda. All’improvviso, un miscuglio di rumori: bicchieri che tintinnavano, liquido che sciabordava, ingranaggi che ronzavano. Strumentazione da vinificatore, a giudicare dal suono. Strano, da fuori non si era sentito niente. Le pareti esterne dell’edificio sono insonorizzate.

La mano pesante lo spinse all’interno. La porta si chiuse di nuovo e il catenaccio fu rimesso al suo posto. Il pavimento sotto di lui dava la sensazione di un liscio cemento. Le sue scarpe finirono in una piccola pozza. L’odore acetoso della fermentazione era molto forte e appena al di sotto, c’era quello dolce e familiare del succo d’uva. Fanno davvero il vino qui.

Reid contò i passi sul pavimento dell’impianto. Passarono attraverso una nuova serie di porte, accompagnati da una diversa gamma di rumori. Macchinari: una pressa idraulica. Un martello pneumatico. La catena tintinnante di un nastro trasportatore. L’odore della fermentazione lasciò il posto all’unto e all’olio dei motori, e… Polvere. Producono qualcosa qui, molto probabilmente munizioni. C’era qualcos’altro, un che di familiare, oltre all’olio e alla polvere. Era dolce, come le mandorle…  Dinitrotoluene, Stanno creando degli esplosivi.

“Scale,” disse la voce di Yuri, vicino al suo orecchio, quando la tibia di Reid andò a sbattere contro il primo gradino. La mano pesante continuò a guidarlo mentre quattro paio di piedi salivano le scale d’acciaio. Tredici gradini. Chiunque abbia costruito questo posto non era superstizioso.

In cima c’era l’ennesima porta d’acciaio. Una volta che fu chiusa alle loro spalle, il suono dei macchinari fu soffocato—doveva essere un’altra porta insonorizzata. Da vicino si alzava una musica classica, una composizione per pianoforte. Brahms. Variazioni su un tema di Paganini. La melodia non era abbastanza ricca da venire da piano vero, doveva esserci uno stereo.

“Yuri.” La nuova voce era un severo baritono, lievemente arrochita da troppe grida o troppi sigari. A giudicare dall’odore nella stanza, la colpa era dei sigari. Ma forse di entrambi.

“Otets,” disse ossequioso Yuri. Parlò rapidamente in russo. Reid fece del suo meglio per seguire, nonostante l’accento di Yuri. “Ti porto buone notizie dalla Francia…”

“Chi è quest’uomo?” volle sapere il baritono. Dal modo in cui parlava, il russo doveva essere la sua lingua nativa. Reid non poté evitare di chiedersi quale fosse il collegamento tra gli iraniani e quest’uomo russo, e gli scagnozzi nel SUV, già che c’era, e persino il serbo Yuri. Un traffico d’armi, forse, disse la voce nella sua testa. O qualcosa di peggio.

“Lui è il messaggero degli iraniani,” rispose Yuri. “Ha le informazioni che cerchiamo…”

“Lo hai portato qui?” lo interruppe l’uomo. La sua voce profonda si alzò in un ruggito. “Saresti dovuto andare in Francia per incontrarti con gli iraniani, non trascinare degli uomini qui da me! Comprometterai tutto con la tua stupidità!” Ci fu un solido schiocco, il rumore di uno schiaffo su un volto, e un ansimo di Yuri. “Devo scrivere il tuo compito su un proiettile, perché ti entri in quella testaccia dura?”

“Otets, ti prego…” balbettò Yuri.

“Non chiamarmi così!” gridò furibondo l’uomo. Una pistola fu caricata, un’arma di grosso calibro, dal suono. “Non chiamarmi con nessun nome in presenza di questo sconosciuto!”

“Non è uno sconosciuto!” strillò Yuri. “Lui è l’Agente Zero! Ti ho portato Kent Steele!”




CAPITOLO SETTE


Kent Steele.

Il silenzio regnГІ per diversi secondi che sembrarono minuti. Un centinaio di visioni lampeggiarono nella mente di Reid come prodotte da una macchina. La CIA. Servizio nazionale clandestino. Divisione attivitГ  speciali. Gruppo operazioni speciali. Operazioni psicologiche.

Agente Zero.

Se ti scoprono, sei morto.

Noi non parliamo. Mai.

Impossibile.

Era semplicemente impossibile. Cose come la cancellazione della memoria, gli impianti o le soppressioni erano stranezze da maniaci delle cospirazioni o da film di Hollywood.

Ormai non aveva più importanza, comunque. Avevano sempre saputo chi era, dal bar al viaggio in auto fino in Belgio, Yuri aveva sempre saputo che Reid non era chi aveva detto di essere. Ora era bendato e intrappolato dietro una porta d’acciaio insieme ad almeno quattro uomini armati. Nessun altro sapeva dove fosse o chi fosse. Un nodo di terrore gli strinse lo stomaco e minacciò di farlo vomitare.

“No,” disse lentamente la voce baritonale. “No, ti sbagli. Stupido Yuri. Questo non è l’uomo della CIA. Se lo fosse, non sarebbe qui.”

“A meno che non sia venuto per cercare te!” ribatté Yuri.

Dita afferrarono la sua benda e la tirarono via. Reid strinse gli occhi contro l’improvviso attacco delle luci fluorescenti. Sbatté le palpebre davanti a un uomo sulla cinquantina, con capelli brizzolati, una barba folta tagliata corta e uno sguardo acuto e intenso. L’uomo, presumibilmente Otets, indossava un elegante abito color carbone e portava i primi due bottoni della camicia aperti, sotto i quali spuntavano i peli del petto ricci e grigi. Si trovavano in un ufficio dalle pareti dipinte di rosso scuro e adornate da dipinti sgargianti.

“Tu,” disse l’uomo in un inglese fortemente accentato. “Chi sei tu?”

Reid prese un respiro tremante e lottò contro la tentazione di dire all’uomo che ormai non lo sapeva più. Invece, con voce incerta rispose: “Mi chiamo Ben. Sono un messaggero. Lavoro con gli iraniani.”

Yuri, che era in ginocchio dietro Otets, saltò in piedi. “Mente!” strillò il serbo. “Io so che mente! Dice che gli iraniani lo hanno mandato, ma non si fiderebbero mai di un americano!” Fece una smorfia. Dall’angolo della sua bocca spuntava un sottile rivolo di sangue, dove Otets lo aveva colpito. “Ma so dell’altro. Vedo, ti ho chiesto di Amad.” Scosse la testa e mostrò i denti. “Non c’è nessun Amad tra di loro.”

A Reid continuava a sembrare strano che quegli uomini sembrassero conoscere gli iraniani, ma non con chi lavorassero, nГ© chi avrebbero mandato. Erano collegati in qualche modo, ma non gli era chiare quale fosse questo collegamento.

Otets borbottò imprecazioni russe sotto voce. Poi in inglese disse: “Hai detto a Yuri che sei un messaggero. Yuri dice che sei l’uomo della CIA. Chi devo credere? Di certo tu non somigli a come pensavo fosse Zero. E il mio galoppino idiota ha ragione su una cosa: gli iraniani detestano gli americani. Non ti vedo bene. Tu dimmi la verità, o io ti sparo in un ginocchio.” Sollevò la pesante pistola, una Desert Eagle serie TIG.

Reid rimase senza fiato per un momento. Era una pistola molto grossa.

Lasciati andare, lo sospinse la sua mente.

Non sapeva come fare. Non sapeva cosa sarebbe successo se lo avesse fatto. L’ultima volta che quegli istinti avevano preso il sopravvento, quattro uomini erano morti e lui si era ritrovato con le mani letteralmente sporche di sangue. Ma non c’era altro modo in cui potesse uscirne vivo, o meglio, il professor Reid Lawson potesse uscirne vivo. Ma Kent Steele, chiunque egli fosse, forse poteva farcela. Magari non sapeva chi fosse, ma non avrebbe avuto importanza se non fosse sopravvissuto tanto a lungo da scoprirlo.

Reid chiuse gli occhi. Annuì una volta, un tacito consenso alla voce nella sua testa. Lasciò cadere le spalle e le sue dita smisero di tremare.

“Sto aspettando,” disse seccamente Otets.

“Non vuoi spararmi,” replicò Reid. Fu sorpreso di sentire la propria voce tanto calma e rilassata. “Uno sparo a bruciapelo da quella pistola non mi distruggerebbe il ginocchio. Mi staccherebbe una gamba e io morirei dissanguato sul pavimento di questo ufficio in pochi secondi.”

Otets fece spallucce. “Come è che dite voi americani? Non si può fare una frittata senza…”

“Ho le informazioni che ti servono,” lo interruppe Reid. “L’ubicazione dello sceicco. Quello che mi ha detto. A chi ho passato le sue informazioni. So tutto del vostro piano, e non sono il solo.”

Gli angoli della bocca di Otets si sollevarono in un ghigno. “Agente Zero.”

“Te l’avevo detto,” esclamò Yuri. “Ho fatto bene, sì?”

“Chiudi la bocca,” ordinò Otets. Yuri si raggomitolò su se stesso come un cane bastonato. “Portalo al piano di sotto e fatti dire tutto quello che sa. Inizia tagliandogli le dita. Non voglio perdere tempo.”

In una giornata normale, quella minaccia avrebbe sconvolto di terrore Reid. I suoi muscoli si tesero per un istante, i peli sul suo collo si rizzarono… ma il suo nuovo istinto lottò contro il panico e lo costrinse a rilassarsi. Aspetta, gli disse. Aspetta l’occasione giusta…

Lo scagnozzo rasato fece un secco cenno d’assenso e afferrò di nuovo il braccio di Reid.

“Idiota!” scattò Otets. “Prima bendalo! Yuri, vai allo schedario. Lì dovrebbe esserci qualcosa.”

Yuri corse allo schedario a tre ripiani di quercia che si ergeva in un angolo e vi spulciò dentro fino a quando non trovò un rotolo di spago grezzo. “Ecco,” disse, e lo lanciò allo scagnozzo calvo.

Tutti gli occhi si alzarono istintivamente sul rotolo di spago che roteava in aria, sia quelli degli scagnozzi, che quelli di Yuri e Otets.

Ma non quelli di Reid. Vide un’occasione e la colse.

Piegò a coppa la mano sinistra e la sollevò bruscamente verso l’alto, colpendo la trachea dell’uomo rasato con la parte più carnosa del palmo. Sentì la sua gola che cedeva all’impatto.

Mentre il primo colpo andava a segno, spinse il tallone dello stivale sinistro dietro di sé e calciò lo scagnozzo con la barba al fianco, lo stesso fianco su cui l’uomo aveva evitato di appoggiarsi durante il viaggio fino in Belgio.

Un ansimo bagnato e strangolato sfuggì dalle labbra dell’uomo rasato mentre si portava le mani alla gola. Lo scagnozzo con la barba grugnì e il suo grosso corpo roteò e cadde.

Abbattuti!

Lo spago finì a terra. E così anche Reid. In un unico gesto si abbassò sul pavimento e strappò la Glock dalla fondina da caviglia dell’uomo rasato. Senza neanche alzare lo sguardo, balzò in avanti e atterrò roteando su se stesso.

Non appena saltò, un boato risuonò nel piccolo ufficio, assurdamente rumoroso. Lo sparo della Desert Eagle lasciò un foro impressionante nella porta d’acciaio dell’ufficio.

Reid smise di roteare a un metro da Otets e si spinse in avanti, verso di lui. Prima che Otets potesse girarsi per prendere la mira, Reid gli prese la mano con la pistola da sotto—non afferrarla mai da sopra, è un ottimo modo per perdere un dito—e la spinse verso l’alto. La pistola sparò di nuovo, un'esplosione rumorosa a meno di un metro dalla testa di Reid. Gli fischiarono le orecchie, ma lui lo ignorò. Spinse di nuovo la pistola verso il basso e di lato, tenendo la canna lontana da sé mentre si portava l’arma al fianco, e la mano di Otets insieme a essa.

L’uomo di mezza età gettò la testa all’indietro e gridò quando il dito che era sul grilletto si spezzò. Il suono nauseò Reid, ma la Desert Eagle rimbalzò a terra.

Si voltò e strinse un braccio attorno al collo di Otets, usandolo come scudo mentre prendeva di mira i due scagnozzi. L’uomo rasato era fuori gioco, ansimando invano per riprendere fiato nonostante la trachea spezzata, ma quello con la barba aveva preso la sua TEC-9. Senza esitare Reid sparò tre colpi in rapida successione, due al petto e uno alla fronte. Un quarto proiettile gli diede il colpo di grazia.

La coscienza di Reid gli gridГІ dal fondo della sua mente. Hai appena ucciso due uomini. Altri due uomini. Ma la coscienza nuova era piГ№ forte, allontanava la nausea e il senso di autoconservazione.

Puoi farti prendere dal panico piГ№ tardi. Ancora qui non hai finito.

Reid girГІ su se stesso, con Otets davanti a sГ© come se stessero ballando, e alzГІ la Glock su Yuri. Lo sfortunato messaggero stava cercando inutilmente di liberare la Sig Sauer dalla fondina della spalla.

“Fermo,” gli ordinò Reid. Yuri si bloccò. “Mani in alto.” Il messaggero serbo alzò lentamente le mani, con i palmi verso fuori. Fece un ampio sorriso.

“Kent,” disse in inglese, “noi siamo buoni amici, non è vero?”

“Prendi la mia Beretta fuori dalla tasca sinistra della tua giacca e appoggiala sul pavimento,” gli disse Reid.

Yuri si leccò il sangue dall’angolo della bocca e agitò le dita della mano sinistra. Lentamente, le infilò nella tasca e ne estrasse la piccola pistola nera. Ma non l’appoggiò a terra. Invece la strinse, con la canna puntata verso il basso.

“Lo sai,” disse, “sto pensando che se vuoi delle informazioni, ti serve almeno uno di noi vivo. Sì?”

“Yuri!” ringhiò Otets. “Fai come ti ha detto!”

“A terra,” ripeté Reid. Non distolse lo sguardo da Yuri, ma temeva che altri nell’impianto potessero aver sentito il rombo della Desert Eagle. Non sapeva quante persone ci fossero al piano di sotto, ma l’ufficio era insonorizzato e i macchinari là fuori erano accesi. Era possibile che non lo avessero sentito, o che fossero così abituati al suono da non farci più caso.

“Forse,” disse Yuri, “prendo la pistola e sparo a Otets. Poi tu avrai bisogno di me.”

“Yuri, nyet!” gridò Otets, quella volta più sbalordito che arrabbiato.

“Vedi, Kent,” spiegò il messaggero. “Questa non è Cosa Nostra. È più, uh… una storia di impiegati scontenti. Vedi come mi tratta. Quindi magari gli sparo, e tu e io, ci mettiamo d’accordo…”

Otets strinse i denti e sibilò una sfilza di maledizioni a Yuri, ma il messaggero reagì solamente con un largo sorriso.

Reid stava diventando impaziente. “Yuri, se non abbassi la pistola subito, sarò costretto a…”

Il braccio di Yuri si mosse, solo un minuscolo segnale che stava per alzarsi. L’istinto di Reid scattò come una macchina che stesse cambiando marcia. Senza pensarci prese la mira e sparò, solo una volta. Successe tanto rapidamente che il rinculo della pistola lo spaventò.

Per un mezzo secondo, Reid pensГІ di averlo mancato. Poi sangue scuro eruttГІ da un buco nel collo di Yuri. Cadde in ginocchio, alzando debolmente una mano per fermare il flusso, ma era troppo tardi.

Servono due minuti per morire dissanguati dall’arteria carotide tagliata. Non voleva sapere come faceva ad avere quella certezza. Ma bastano dai sette ai dieci secondi per svenire per la perdita di sangue.

Yuri cadde in avanti. Reid subito si voltò verso la porta d’acciaio con la Glock puntata al suo centro. Aspettò. Respirava con calma e senza fretta. Non sudava nemmeno. Otets ansimava a fatica, e si teneva il dito rotto con la mano buona.

Non arrivГІ nessuno.

Ho appena sparato a tre uomini.

Non c’è tempo per questo ora. Esci di qui.

“Stai fermo,” ringhiò a Otets mentre lo lasciava andare. Calciò la Desert Eagle in un angolo distante, dove finì sotto lo schedario. Non gli serviva un cannone come quello. Lasciò anche le pistole automatiche TEC-9 degli scagnozzi, erano inaccurate e buone solo a spruzzare proiettili su vaste aree. Invece, spintonò di lato il corpo di Yuri e prese la Beretta. Tenne anche la Glock, infilando entrambe le mani con le pistole in ciascuna tasca della giacca.

“Usciamo di qui,” disse a Otets, “tu e io. Tu vai per primo e fai finta che non stia succedendo niente di strano. Mi accompagni fuori, fino a una macchina decente. Perché queste?” Mosse le mani, ognuna infilata in una tasca e stretta attorno a una pistola. “Queste sono puntate alla tua schiena. Fai un solo sbaglio, di’ una singola parola e ti infilo un proiettile tra le vertebre L2 e L3. Se avrai la fortuna di non morire, sarai paralizzato per il resto della tua vita. Hai capito?”

Otets lo fissГІ storto, ma era abbastanza furbo da annuire.

“Bene. Allora fai strada.”

L’uomo russo si fermò alla porta d’acciaio. “Non uscirai vivo da qui,” disse in inglese.

“Farai meglio a sperare che ci riesca,” ringhiò Reid. “Perché se no mi accerterò che non lo faccia neanche tu.”

Otets aprì la porta e uscì sul pianerottolo. I suoni dei macchinari riecheggiarono subito fragorosi. Reid lo seguì fuori dall’ufficio e sulla piccola piattaforma d’acciaio. Abbassò lo sguardo oltre la ringhiera, verso il piano sotto. Le sue idee, o quelle di Kent? erano state corrette. C’erano due uomini a lavoro su una pressa idraulica. Un altro era davanti al corto nastro trasportatore, a ispezionare componenti elettronici che rotolavano lentamente verso una superficie metallica alla fine. Altri due con indosso occhialini e guanti di latex sedevano a un tavolo di melamina, misurando con cura qualche tipo di sostanza chimica. Stranamente, notò che erano di varie nazionalità, tre erano bianchi e con i capelli scuri, probabilmente russi, ma due erano di certo mediorientali. L’uomo alla pressa era africano.

L’odore di mandorle del dinitrotoluene gli colpì le narici. Stavano producendo esplosivi, come aveva dedotto in precedenza dall’odore e dai suoni.

Sei in tutto. Probabilmente armati. Nessuno di loro alzò lo sguardo verso l’ufficio. Non spareranno qui dentro, non con Otets all’aperto e queste sostanze chimiche tutte in giro.

Ma non posso neanche io, pensГІ Reid.

“Impressionante, no” disse Otets con un ghigno. Aveva notato che Reid stava ispezionando il piano.

“Muoviti,” comandò lui.

Otets prese le scale, le sue scarpe rumorose sul primo gradino metallico. “Sai,” disse casualmente, “Yuri aveva ragione.”

Esci di qui. Vai al SUV. Abbatti il cancello. Guida come se ti inseguissero tutti i diavoli dell’inferno.

“Ti serve uno di noi.”

Torna sull’autostrada. Trova una stazione di polizia. Coinvolgi l’Interpol.

“E il povero Yuri è morto…”

Dagli Otets. Costringilo a parlare. Scagionati dall’omicidio di sette uomini.

“Quindi penso che tu non possa uccidermi.”

Ho ucciso sette uomini.

Ma ГЁ stata legittima difesa.

Otets raggiunse l’ultimo gradino, Reid dietro di lui con le mani infilate nelle tasche della giacca. Aveva i palmi sudati, ognuno stretto attorno a una pistola. Il russo si fermò e si lanciò una rapida occhiata dietro la spalla, senza guardare veramente Reid. “Gli iraniani. Sono morti?”

“Quattro di loro,” rispose lui. Il fracasso dei macchinari quasi soffocò la sua voce.

Otets schioccò la lingua. “Peccato. Ma d’altra parte… significa che non mi sbaglio. Non hai piste, nessun’altro da cui andare. Ti servo.”

Stava scoprendo il bluff di Reid. Il panico gli salì nel petto. L’altra parte, la parte che era Kent, lottò contro di esso, come costringendolo a deglutire una pillola a secco. “Ho tutto quello che lo sceicco ci ha detto…”

Otets ridacchiò. “Lo sceicco, già. Ma ti sarai già accorto che Mustafar sapeva molto poco. Era solo un conto in banca, agente. Era un debole. Credevi che gli avremmo detto i nostri piani? E se fosse così, perché allora saresti venuto fin qui?”

La fronte di Reid si coprì di sudore. Era andato lì nella speranza di trovare delle risposte, non solo su questo fantomatico piano ma anche su chi fosse lui stessi. Aveva trovato molto più di quanto avrebbe voluto. “Muoviti,” ordinò di nuovo. “Verso la porta, lentamente.”

Otets scese dalle scale, muovendosi piano, ma non si incamminГІ verso la porta. Invece fece un passo verso il laboratorio, e i suoi uomini.

“Che cosa stai facendo?” volle sapere Reid.

“Fammi vedere le tue carte, agente Zero. Se mi sbaglio, allora mi sparerai.” Sorrise e fece un altro passo.

Due degli operai alzarono lo sguardo. Dalla loro prospettiva, sembrava che Otets stesse semplicemente parlando con uno sconosciuto, forse un socio d’affari o un rappresentante di un’altra fazione. Nessun motivo per allarmarsi.

Il panico salì di nuovo nel petto di Reid. Non voleva lasciare andare le pistole. Otets era a soli due passi di distanza, ma Reid non poteva afferrarlo e spingerlo verso la porta, non senza allertare i sei uomini. Non poteva rischiare di sparare in una stanza piena di esplosivi.

“Do svidaniya, agente.” Otets sorrise. Senza togliere gli occhi di dosso a Reid gridò in inglese: “Sparate a quest’uomo!”

Due lavoratori alzarono lo sguardo, guardandosi tra di loro e Otets in preda alla confusione. Reid ebbe l’impressione che fossero semplicemente operai, non soldati o guardie del corpo come il paio di scagnozzi morti al piano di sopra.

“Idioti!” ruggì Otets sopra al rumore dei macchinari. “Quest’uomo è della CIA! Sparategli!”

Quello attirò la loro attenzione. I due uomini al tavolo della melamina si alzarono rapidamente e misero mano alle fondine da spalla. L’uomo africano alla pressa pneumatica si abbassò per prendere un AK-47 ai suoi piedi.

Non appena si mossero, Reid saltò in avanti, tirando allo stesso tempo le mani, ed entrambe le pistole, fuori dalle tasche. Fece girare Otets per una spalla e sollevò la Beretta alla tempio sinistra del russo, per poi puntarla verso l’uomo con l’AK, stringendo a sé il capo.

“Non sarebbe molto saggio,” disse ad alta voce. “Sai che cosa potrebbe succedere se iniziassimo a sparare qui.”

La vista di una pistola alla tempia del loro capo spinse tutti gli altri uomini in azione. Aveva avuto ragione: erano tutti ben armati e ora aveva sei pistole puntate su di lui con solo Otets a frapporsi tra di loro. L’uomo con l’AK i mano guardò nervosamente verso i suoi compagni. Un sottile rivolo di sudore gli scivolò sul lato della fronte.

Reid fece un piccolo passo indietro, attirando Otets con sé con una spinta della Beretta. “Bravo, tranquillo,” disse a bassa voce. “Se iniziano a sparare qui, tutto il posto potrebbe saltare per aria. E non credo che tu voglia morire oggi.”

Otets strinse i denti e mormorò un’imprecazione in russo.

Poco alla volta indietreggiarono, un minuscolo passo alla volta, verso le porte dell’impianto. Il cuore di Reid minacciava di esplodergli fuori dal petto. I suoi muscoli si tesero nervosamente, e poi si distesero mentre l’altra parte di lui lo costrinse a rilassarsi. Rilassa le membra. I muscoli tesi rallenterebbero le tue reazioni.

Per ogni minuscolo passo che lui e Otets facevano all’indietro, i sei uomini ne facevano uno avanti, mantenendo la stessa breve distanza tra di loro. Stavano aspettando un’opportunità, e più si allontanavano dalle macchine e meno era probabile che innescassero inavvertitamente una reazione. Reid sapeva che era solo la possibilità di uccidere accidentalmente Otets che gli impediva di sparare. Nessuno parlava, ma le macchine ronzavano dietro di loro. La tensione nell’aria era palpabile, elettrica; era consapevole che in qualsiasi momento qualcuno avrebbe potuto farsi prendere dai nervi e cominciare a far fuoco.

Poi la sua schiena si appoggiò alle doppie porte. Un altro passo e le aprì, attirando Otets con sé con una spinta della canna della pistola.

Prima che le porte si chiudessero di nuovo, Otets ringhiò ai suoi uomini: “Non deve uscire vivo di qui!”

Poi si richiusero, e i due uomini si ritrovarono nella sala successiva, quella adibita alla vinificazione, piena del tintinnio delle bottiglie e del dolce profumo dell’uva. Non appena l’ebbero attraversata, Reid si girò con la Glock puntata a livello di un torso umano, continuando a puntare la Beretta su Otets.

Le macchina per l’imbottigliamento e la chiusura erano attive, ma era quasi tutto automatizzato. L’unica persona presente in tutta la stanza era una donna russa dall’aria stanca che indossava un foulard verde legato attorno alla testa. Alla vista delle pistole, Reid e Otets, i suoi occhi affaticati si sgranarono per il terrore e gettò in aria entrambe le mani.

“Spegnile,” disse Reid in russo. “Mi hai capito?”

Lei annuì vigorosamente e sollevò due leve sul pannello di controllo. Le macchine ronzarono e poco alla volta si fermarono.

“Vai,” le disse. La donna deglutì e indietreggiò verso l’uscita. “In fretta!” gridò secco lui. “Via di qui!”

“Da,” mormorò lei. Corse verso la pesante porta d’acciaio, la aprì e svanì nella notte al di fuori. La porta si richiuse con un boato.

“E ora, agente?” grugnì Otets in inglese. “Quale è il tuo piano di fuga?”

“Stai zitto.” Reid sollevò la pistola alle doppie porte che davano sull’altra stanza. Perché gli uomini non erano entrati? Non poteva continuare a muoversi senza sapere dove fossero. Se ci fosse stata una porta sul retro nell’impianto, avrebbero potuto essere già fuori ad aspettarlo. Se lo avessero seguito, non sarebbe mai riuscito a mettere Otets sul SUV e ad andarsene senza farsi ammazzare. Lì dentro non c’era la minaccia degli esplosivi, avrebbero potuto sparargli se lo avessero voluto. Avrebbero rischiato di colpire Otets per arrivare a lui? Nervi scossi e una pistola non erano una combinazione ideale per nessuno, nemmeno per il loro capo.

Prima che potesse decidere il da farsi, le potenti luci fluorescenti sopra la sua testa si spensero. In un istante finirono immersi nell’oscurità.




CAPITOLO OTTO


Reid non vedeva niente. Non c’erano finestre nell’impianto. I lavoratori nella stanza vicina dovevano aver staccato i contatori perché persino i rumori dei macchinari rallentarono fino a spegnersi.

Raggiunse rapidamente Otets al buio e afferrò il colletto del russo prima che potesse scappare. Otets emise un verso strangolato quando Reid lo tirò all’indietro. Allo stesso momento, si accese la luce rossa d’emergenza, una semplice lampadina che spuntava dal muro sopra la porta. Riempì la stanza di un vago e inquietante chiarore.

“Questi uomini non sono degli sciocchi,” disse piano Otets. “Non uscirai vivo di qui.”

Rifletté furiosamente. Doveva sapere dove erano, o ancora meglio, doveva far sì che andassero da lui.

Ma come?

Г€ semplice. Sai che cosa fare. Smettila di opporti.

Reid prese un profondo respiro con il naso, e fece l’unica cosa che aveva senso in quel momento.

SparГІ a Otets.

La secca esplosione della Beretta riecheggiГІ nella stanza altrimenti silenziosa. Otets gridГІ di dolore. Le sue mani volarono a stringere la coscia sinistra, dove il proiettile lo aveva appena sfiorato, facendolo sanguinare copiosamente. SibilГІ una lunga litania furibonda di imprecazioni in russo.

Reid lo afferrò di nuovo per il colletto e lo tirò all’indietro, quasi facendolo cadere, costringendolo a chinarsi dietro il nastro trasportatore della macchina per l’imbottigliamento. Aspettò. Se gli uomini fossero ancora stati dentro, avrebbero di certo sentito lo sparo e sarebbero arrivati di corsa. Se non fosse venuto nessuno, erano da qualche parte fuori, in sua attesa.

Ebbe la sua risposta qualche secondo più tardi. Le doppie porte furono aperte con un calcio dall’altro lato, tanto forte da mandarle a sbattere contro il muro dietro di esse. Il primo ad attraversarle fu l’uomo con l’AK, muovendo la canna dell’arma in grandi archi, da una parte all’altra della stanza. Altri due uomini erano subito dietro di lui, entrambi armati di pistole.

Otets gemette per il dolore e si strinse forte la gamba. I suoi lo udirono, girarono l’angolo creato dalla macchina per l’imbottigliamento con le armi alzate e trovarono il loro capo seduto a terra, che sibilava tra i denti per la ferita alla coscia.

Reid, invece, non era lì.

Era corso rapidamente verso l’altro lato del macchinario, rimanendo abbassato. Si era infilato la Beretta in tasca e afferrato una bottiglia vuota dal nastro. Prima che potessero girarsi, abbatté la bottiglia sulla testa del lavoratore più vicino, un uomo mediorientale, e poi infilò il collo affilato e frastagliato nella gola del secondo. Sangue caldo gli colò sulle mani mentre l’uomo gorgogliava e cadeva a terra.

Uno.

L’uomo africano con l’AK-47 si girò, ma non fu abbastanza veloce. Reid usò l’avambraccio per spingere di lato la canna, mentre una salva di proiettili riempiva l’aria. Avanzò con la Glock, la spinse sotto il mento dell’uomo e premette il grilletto.

Due.

Un altro sparo finì il primo terrorista—dato che era ciò con cui chiaramente stava avendo a che fare, o così decise—ancora steso a terra privo di sensi.

Tre.

Reid respirava rapidamente, e cercava di calmare i battiti del suo cuore. Non aveva tempo di essere disgustato da quello che aveva fatto, né voleva soffermarsi a pensarci. Era come se il professore Lawson fosse andato in shock, e l’altra parte avesse preso del tutto il sopravvento.

Movimenti. Da destra.

Otets era emerso a gattoni da dietro la macchina e stava cercando di afferrare l’AK. Reid si girò rapidamente e lo calciò nello stomaco. La forza del colpo fece rotolare via il russo, che si tenne il fianco gemendo.

Reid sollevò l’AK. Quanti colpi erano stati esplosi? Cinque? Sei? Aveva un caricatore da trentadue proiettili. Se fosse stato pieno, aveva ancora ventisei colpi.

“Stai giù,” intimò a Otets. Poi, con grande sorpresa del russo, Reid lo lasciò lì e tornò indietro nell’altra parte dell’impianto.

La stanza dove si fabbricavano esplosivi era illuminata dalla stessa fioca luce rossa della lampadina d’emergenza. Reid aprì la porta con un calcio e immediatamente si abbassò su un ginocchio, un caso qualcuno stesse puntando una pistola alla porta, per controllare a destra e a sinistra della stanza. Non c’era nessuno dentro, che significava che doveva esserci una porta sul retro. La trovò in fretta, una porta d’acciaio di sicurezza dietro le scale e nel muro a sud. Probabilmente si apriva solo da dentro.

Gli altri tre erano là fuori, da qualche parte. Era un rischio: non aveva modo per sapere se lo stavano aspettando proprio dall’altra parte della porta, o se erano andati davanti all’edificio. Gli serviva un modo per proteggersi.

Dopo tutto, qui si costruiscono bombe…

Nell’angolo opposto della sala, oltre un nastro trasportatore, trovò una lunga cassetta di legno delle dimensioni di una vara e piena di polistirolo da imballaggio. Vi frugò in mezzo fino a quando non mise mano su qualcosa di solido e lo tirò fuori. Era una scatola di plastica opaca nera, e sapeva già che cosa vi avrebbe trovato dentro.

La appoggiò sul tavolo con attenzione e l’aprì. Con dispiacere piuttosto che con sorpresa, l’aveva riconosciuta come una valigetta per bombe, approntata con un timer ma che poteva essere bypassato con un interruttore apposito, che fungeva da fail-safe.

Il sudore gli imperlГІ la fronte. Lo sto facendo davvero?

Nuove visioni gli apparvero nella mente, di attentatori afghani a cui mancavano dita e arti interi per colpa di esplosivi mal costruiti. Edifici in fiamme con una sola mossa sbagliata, un solo cavo sconnesso.

Che altra scelta hai? O questo, o ti fai sparare.

L’interruttore del fail-safe era un piccolo rettangolo verde della dimensione di un coltellino svizzero, con una levetta su un lato. Lo sollevò nella mano sinistra e trattenne il fiato.

Poi lo premette.

Non successe nulla. Era un buon segno.

Si accertò di tenere la levetta chiusa nel pugno (perché rilasciandola avrebbe fatto detonare immediatamente la bomba) e impostò il timer con venti minuti di tempo, ma non gli sarebbe servito così tanto. Poi sollevò l’AK nella mano destra e si levò di lì.

Sussultò; la porta di sicurezza sul retro scricchiolò sui cardini quando l’aprì. Saltò fuori nel buio con l’AK sollevato. Non c’era nessuno lì, né dietro l’edificio, ma doveva aver sentito lo scricchiolio rivelatore della porta.

La sua gola era secca e il cuore gli batteva come un tamburo, ma tenne la schiena contro la parete d’acciaio e si avvicinò con cautela all’angolo dell’edificio. Gli sudavano le mani, stringendo nella sua presa la levetta del fail-safe. Se l’avesse lasciata andare in quel momento, sarebbe morto all’istante. La quantità di C4 nella bomba avrebbe abbattuto le pareti del palazzo e l’avrebbe schiacciato, se prima non fosse stato incenerito.

Ieri il mio problema più grosso era mantenere sveglia l’attenzione dei miei studenti per novanta minuti. In quel momento stringeva una bomba in mano cercando di sfuggire a dei terroristi russi.

Concentrati. Raggiunse l’angolo dell’edificio e vi sbirciò dietro, rimanendo il più possibile nelle ombre. C’era la sagoma di un uomo, con una pistola in pugno, che faceva la guardai alla facciata orientale.

Reid si accertò di avere una buona presa sulla levetta. Puoi farcela. Poi emerse in piena vista. L’uomo si voltò su se stesso e fece per alzare la pistola.

“Ehi,” disse. Sollevò anche lui la mano, e non quella con cui stringeva la pistola, ma l’altra. “Sai che cosa è questo?”

L’uomo si fermò e reclinò lievemente la testa. Poi i suoi occhi si sgranarono terrorizzati tanto che Reid riuscì a vederne il bianco anche sotto la luce della luna. “Interruttore,” borbottò l’uomo. Il suo sguardo andò dalla levetta all’edificio e poi da capo, sembrando arrivare alla stessa conclusione raggiunta da Reid: se lui avesse rilasciato l’interruttore di sicurezza sarebbero morti entrambi all’istante.

Il lavoratore abbandonò il suo piano di sparare a Reid e invece corse verso la parte anteriore dell’edificio. Reid lo seguì in fretta. Udì delle urla in arabo: “Interruttore! Ha l’interruttore!”

Girò l’angolo che dava sulla facciata dell’impianto con l’AK puntato in avanti, il calcio appoggiato nell’incavo del gomito, e la mano con cui stringeva l’interruttore della bomba alzata sopra la testa. Il lavoratore in fuga non si era fermato; aveva continuato a correre su per la strada sterrata che portava via dall’edificio, gridando fino a perdere la voce. Gli altri due lavoratori si erano avvicinati alla porta principale, apparentemente pronti a entrare per finire Reid. Lo fissarono sbalorditi quando emerse da dietro l’angolo.

Reid studiò rapidamente la scena. I due uomini avevano pistole, delle Sig Sauer P365, con un caricatore da tredici colpi con calci allungati, ma nessuno la stava puntando. Come aveva immaginato, Otets era scappato dalla porta principale ed era, in quel momento, diretto verso il SUV, zoppicando e tenendosi la gamba ferita, sostenuto per una spalla da un uomo basso e in carne con un cappello nero, l’autista, immaginò Reid.

“Pistole a terra,” ordinò lui. “O faccio saltare tutto in aria.”

I lavoratori appoggiarono con attenzione le armi a terra. Reid sentì urla in lontananza, altre voci. Altre ancora venivano dalla direzione dell’antico palazzo. Probabilmente la donna russa aveva fatto una soffiata.

“Correte,” disse loro. “Vai a dirgli cosa sta per succedere.”

I due uomini non se lo fecero dire due volte. Scattarono in una corsa nella stessa direzione presa dal loro collega.

Reid riportò la sua attenzione sull’autista, che aiutava il capo ferito ad avanzare. “Fermo!” gridò.

“Non osare!” ruggì Otets in russo.

L’autista esitò. Reid lasciò cadere l’AK ed estrasse la Glock dalla tasca della giacca. Avevano percorso metà della strada fino all’auto. Sono circa venti metri. Facile.

Avanzò di qualche passo e gridò: “Non credo di aver mai sparato con una pistola prima di oggi. E invece a quanto pare sono un ottimo tiratore.”

L’autista era un uomo ragionevole, o forse un codardo, o magari entrambi. Lasciò Otets, facendo cadere l’uomo a terra senza tante cerimonie.

“Le chiavi,” ordinò lui. “Mettile a terra.”

Le mani dell’autista tremavano mentre prendeva le chiavi del SUV dalla tasca interna della giacca. Gliele gettò ai piedi.

Reid gli fece cenno con la canna della pistola. “Vai.”

L’autista corse via. Il cappello nero gli volò via dalla testa ma lui non ci fece caso.

“Codardo!” sibilò in russo Otets.

Per prima cosa Reid recuperò le chiavi, poi si fermò davanti a Otets. Le voci in lontananza si stavano avvicinando. Il palazzo era a mezzo miglio di distanza; alla donna russa sarebbero serviti quattro minuti per raggiungerlo a piedi, e poi ci sarebbe voluto qualche altro minuto agli uomini per arrivare fino lì. Immaginò meno di due minuti.

“Alzati.”

Otets gli sputГІ sulle scarpe in risposta.

“Fai come preferisci.” Reid si mise la Glock in tasca, afferrò Otets per il retro della giacca e lo tirò fisicamente verso il SUV. Il russo gridò per il dolore, mentre la sua gamba ferita veniva trascinata sulla sterrata.

“Entra,” gli ordinò, “o ti sparo nell’altra gamba.”

Otets borbottò sotto voce, sibilando per il male, ma salì in auto. Reid chiuse la porta, girò rapidamente intorno all’auto, e si mise dietro il volante. Nella mano sinistra stringeva ancora l’interruttore della bomba.

Avviò l’auto e pigiò il pedale dell’acceleratore. Le gomme rotearono, sollevando la ghiaia e la terra sotto di esse, e poi il veicolo scattò in avanti con un sobbalzo. Non appena partì sulla stretta strada d’accesso, esplosero degli spari. Il lato del passeggero fu crivellato di colpi, accompagnati da una serie di tonfi violenti. Sul finestrino, appena a destra della testa di Otets, si aprì una ragnatela di vetro incrinato, ma resse.

“Idioti!” strillò Otets. “Smettetela di sparare!”

Vetro anti-proiettile, pensò Reid. Certo che lo è. Ma sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Premette l’acceleratore e il SUV sobbalzò di nuovo, sfrecciando con un rombo davanti a tre uomini sul ciglio della strada che sparavano verso l’auto. Reid abbassò il finestrino mentre superavano i due operai che erano stati intenti a costruire una bomba, che correvano per le loro vite.

Poi gettò l’interruttore fuori dall’auto.

L’esplosione scombussolò il SUV, persino a quella distanza. Non udì la detonazione, quanto la percepì fisicamente, nel profondo del suo corpo, fino alle interiora. Un’occhiata nello specchietto retrovisore rivelò solo un’intensa luce gialla, come se stesse fissando direttamente il sole. Puntini luminosi gli offuscarono la vista per un momento e si costrinse a concentrarsi sulla strada. Una palla di fuoco arancione si alzò nel cielo, circondata da un immenso pennacchio di fumo nero.

Otets emise un lungo sospiro tremante. “Non hai idea di quello che hai appena fatto,” disse a bassa voce. “Sei un uomo morto, agente.”

Reid non rispose. Sapeva benissimo cosa aveva fatto: aveva distrutto una quantitГ  significativa di prove per qualsiasi caso avrebbe potuto essere aperto contro Otets non appena lo avesse portato alle autoritГ . Ma il criminale si sbagliava, non era un uomo morto, non ancora per lo meno, e la bomba lo aveva aiutato a scappare.

Fino a quel punto.

Davanti a lui apparve il palazzo antico, ma non ebbe il modo di fermarsi ad apprezzarne l'architettura. Tenne gli occhi diritti e lo sorpassГІ, con il SUV che sobbalzava per le buche nella strada.

Una luce nello specchietto attirò la sua attenzione. Due paia di luci entrarono nel suo campo visivo, uscendo dal vialetto del palazzo. Erano molto basse e lui riusciva a sentire il fischio acuto dei motori sopra il rombo del proprio. Auto sportive. Premette di nuovo il piede sull’acceleratore. Sarebbero state più veloci di lui, ma il SUV era meglio equipaggiato per tollerare la strada dissestata.

Nuovi spari esplosero in aria e proiettili atterrarono nel parafango posteriore. Reid strinse il volante in entrambe le mani, con le vene in rilievo contro i muscoli tesi. Aveva il controllo. Poteva farcela. Il cancello di ferro non era lontano. Stava facendo i cinquantacinque attraverso il vigneto; se avesse mantenuto quella velocitГ , sarebbe stata sufficiente per abbattere la cancellata.

Il SUV ondeggiò violentemente quando un proiettile colpì una gomma di dietro e la fece esplodere. La parte davanti sbandò senza controllo. Reid sterzò istintivamente, digrignando i denti. La parte posteriore slittò, ma il SUV non si ribaltò.

“Che Dio mi salvi,” gemette Otets. “Questo pazzo mi farà ammazzare…”

Reid strinse di nuovo il volante e raddrizzГІ il veicolo, ma il thum-thum-thum regolare e battente della gomma gli disse che stavano viaggiando sul cerchione e frammenti di plastica. Scese a quaranta chilometri orari. CercГІ di nuovo di dare gas ma il SUB cigolГІ, minacciando di sbandare di nuovo.

Sapeva che non sarebbe riuscito a mantenere la velocitГ  necessaria per abbattere il cancello. Gli sarebbero rimbalzati sopra.

È un cancello elettronico, pensò all’improvviso. Era controllato dalla guardia vicina, che a quel punto sarebbe sicuramente stata allertata del suo tentativo di fuga e pronta con il pericolo MP7, ma significava che doveva esserci un’altra uscita dal complesso.

Colpi continuarono a crivellargli il parafango mentre i due inseguitori gli sparavano addosso. AlzГІ i fendinebbia e vide che si stava avvicinando rapidamente al cancello.

“Tieniti a qualcosa, ” avvertì Reid. Otets afferrò la maniglia sopra al suo finestrino e borbottò una preghiera sottovoce, mentre l’agente sterzava bruscamente verso destra. Il SUV scivolò di lato sulla ghiaia. Sentì le due gomme del lato passeggeri che si alzavano da terra e per un istante, gli balzò il cuore in gola al pensiero che si sarebbero ribaltati.

Ma mantenne il controllo, e le gomme tornarono sulla sterrata. Pigiò sull’acceleratore e puntò dritto sul vigneto, abbattendo il sottile pergolato di legno come se fosse fatto di stuzzicadenti e schiacciando le viti.

“Che diavolo stai facendo?” strillò Otets in russo. Rimbalzò sul suo sedile mentre viaggiavano sopra le piante. Dietro di lui, le due auto sportive frenarono con uno stridio. Non potevano seguirlo, non in mezzo al campo, ma probabilmente avevano capito che cosa stava cercando, e sapevano dove trovarlo.

“Dove è l’altra uscita?” volle sapere Reid.

“Quale uscita?”

Estrasse la Beretta dalla tasca della giacca (non un’impresa facile, con l’auto che rimbalzava così violentemente) e la premette sulla gamba già ferita di Otets. Il russo gridò di dolore. “Da quella parte!” urlò, puntando il dito storto nell’angolo a sud-ovest del complesso.

Reid trattenne il fiato. Ti prego, non mi abbandonare, pensГІ disperatamente. Il SUV era robusto, ma fino a quel momento era stato fortunato a non spaccarsi un asse.

Poi, per fortuna, il vigneto finì di colpo e tornarono sulla strada sterrata. I suoi fari illuminarono un secondo cancello, fatto dello stesso ferro battuto, ma su ruote e tenuto insieme da una singola catena.

Eccoci. Reid strinse la mascella e pigiò di nuovo sull’acceleratore. Il SUV prese velocità e Otets ululò un’imprecazione incomprensibile. La parte anteriore si scontrò con il cancello e lo spalancò di colpo, strappandolo dai cardini.

Si concesse un lungo sospiro di sollievo. Poi due fanali gli illuminarono di nuovo lo specchietto retrovisore: le auto sportive lo avevano raggiunto. Erano tornate indietro e avevano fatto un’altra strada, che presumibilmente partiva dal lato opposto del palazzo.

“Maledizione,” mormorò Reid. Non poteva continuare in quella maniera per sempre, e se gli avessero fatto saltare anche l’altra gomma posteriore sarebbe stato fregato. La strada lì era diritta, e sembrava inclinarsi verso l’alto. Era anche pavimentata molto meglio che dietro il cancello, che significava solo che le auto sportive lo avrebbero raggiunto molto più in fretta.

Gli alberi andavano diradandosi sul lato destro della strada. Il suo sguardo scattò dall’asfalto al finestrino del passeggero. Avrebbe potuto giurare di aver visto attraverso il vetro incrinato un scintillio… di acqua.

Un ricordo si fece strada nella sua mente, ma non una delle visioni lampeggianti della nuova coscienza. Era un ricordo vero e proprio, uno del professor Lawson. Siamo nelle Ardenne. L’offensiva delle Ardenne è avvenuta qui. Le forze americane e inglesi hanno protetto il ponte contro le divisioni tedesche sul fiume…

“Mosa,” mormorò ad alta voce. “Siamo sul fiume Mosa.”

“Cosa?” esclamò Otets. “Che stai farneticando?” Poi si abbassò istintivamente mentre dei proiettili mandavano in frantumi il loro finestrino sul retro.

Reid ignorò lui e i proiettili. Stava pensando. Che cosa è che aveva letto riguardo al fiume Mosa? Che attraversava le montagne, sì. E loro erano su una pendenza, che saliva verso l’alto. C’erano delle cave da quelle parti. Cave di marmo rosso. Precipizi e ripide discese.

Il SUV sussultò in segno di protesta. Un suono pesante e sconcertante risuonò da sotto l’auto

“Che cosa è stato?” gridò Otets.

“È l’asse che si spacca,” rispose Reid. Si concentrò sulla strada davanti a sé. Avevano pochissimo tempo.

Un altro scoppio fece ondeggiare l’auto e minacciò di sbalzarla dalla strada. Non un proiettile, pensò lui. Era l’altra gomma che esplodeva. Non aveva più tempo e stava finendo la strada. Scrutò tra gli alberi alla ricerca di uno spazio abbastanza largo.




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